Un paesaggio surreale

E' l'alba. Ho di fronte a me un paesaggio surreale. E' la mia prima settimana in West Bank e la notte scorsa sono arrivata in macchina ad Umm al Kheir, un villaggio in costante rischio demolizione. Se ne temeva l'ennesima la mattina successiva. Ci sono passati a prendere al villaggio in macchina. Non sono particolarmente agitata, anzi mi godo il viaggio tra i villaggi e le dune in questa macchina sgangherata che potrebbe smettere di funzionare da un momento all'altro.

Mi piace cercare di distinguere i villaggi in mezzo al nulla. Anche la compagnia è piacevole. Si parla inglese. Uno dei due nostri accompagnatori di Umm al Kheir mi spiega scherzando di essere finita nella zona più pericolosa dell'area, ma di non preoccuparmi. "Al limite ti arrestano, mica ti uccidono, ecco". Rido, sono tranquilla ma ovviamente spero non succeda niente l'indomani.

Arriviamo al villaggio. "Poveretti, dove vivono”, penso guardando quelle baracche chissà quante volte distrutte e ricostruite. A due passi la colonia di Karmel. La vicinanza è impressionante. Ieri sera prima di addormentarmi ho sentito delle voci avvicinarsi. Non era inglese, non era arabo. Mi giro per vedere da dove provengono. Due metri separano il tendone dove mi trovo dalla recinzione della colonia. Due soldati stanno passeggiando tranquilli, stanno facendo la ronda immagino. Parlano tranquilli, ridono fra di loro. Guardo l'altra volontaria e ridiamo, sembra così assurdo. Mi domando come si possa vivere così. Due realtà così vicine separate da una sola recinzione. In Italia li si chiamerebbe vicini se non addirittura li si considererebbe dello stesso villaggio.
Eppure sono due mondi contrapposti che non comunicano.

La mattina nuovamente ho sentito qualche passo e sbirciando tra i buchi della tenda ho intravisto un ragazzo. Mitra in spalla. Avrà la mia età. Se non fosse per la divisa potrebbe essere benissimo un ragazzo delle mie parti. Assonnato anche lui visto l’orario e un po’ rintontito da questo cellulare che tiene a due centimetri dal suo viso. Cammina quasi dondolando, mi aspetto che inciampi da un momento all’altro. Vorrei avere occasione di parlarci. Non credo sia giusto vedere tutto in bianco e nero. Una storia l’avrà anche lui, forse odia quel che sta facendo, forse odia questo posto. Chissà, ci spero.

Comunque tornando a ieri sera, appena arrivati ci fanno come sempre accomodare su dei materassini. Le conversazioni iniziali sono in arabo e io faccio da bella statuina. Ma la gentilezza nei miei confronti ovviamente non manca. “Benvenuta! Sei nuova? Come ti chiami?” Non capisco se per difficoltà nel pronunciare il mio nome o se per altre ragioni ma vengo ribattezzata Fatima. Sono felicissima. Ben presto arriva il buon tè. La conversazione diventa in inglese quando alcuni ragazzi che parlano solo in arabo se ne vanno a dormire. Chiacchiere e risate fino alle due. Poi tutti a dormire. Mi risveglio all’alba e il paesaggio che ho di fronte mi sembra surreale. Il sole sta sorgendo e pian piano illumina le baracche e in fondo i villaggi arroccati sulle colline. Le bandiere palestinesi sventolano già orgogliose con il venticello mattutino. Un bambino dagli occhi ipnotizzanti mi si avvicina. Iniziamo a disegnare insieme mentre gli altri continuano a russare.  

Mi domando come sto. Sono arrivata qui con la voglia di fare ma mi sono sentita subito profondamente in colpa per una tale forma di egoismo. Il mio desiderio avrebbe significato sofferenza per altri. Vedere un check point? Una demolizione? Perché? Ma questo è un pensiero che ho scacciato già dal primo giorno qui. Arrivata a Umm al Kheir invece ho provato un senso di pena e pietà per questa povera gente costretta a vivere in case di fortuna con il costante terrore di una demolizione. Come fanno a vivere qui, mi sono chiesta. Ma mi sono bastati i primi cinque minuti della conversazione della sera precedente per capire che in realtà poveretti non lo sono per nulla. Quanta forza di volontà ci vuole per vivere così e rimanere qui?

Molti di loro hanno visto la propria casa distrutta quattro volte in un solo mese. Si sono rimboccati le maniche e l’hanno ricostruita nonostante sappiano che prima o poi le ruspe torneranno. Mi vergogno del mio iniziale senso di pietà. Mi vergogno di essere nata nella parte “giusta” del mondo. Penso a quando tornerò a casa, all’agio di una vita senza problemi così seri. Sto già male al pensiero che una volta tornata in Italia, tutti i volti incontrati, tutte le vite che ho sentito raccontare, finiscano nell’oblio dell’indifferenza. Mi auguro allora, per non cedere allo sconforto, di fare in modo almeno attraverso i miei racconti che questo non possa accadere.