Il loro “mio” e “tuo”, non è quello al quale siamo abituati

- Entra! - mi fa S.

Me lo dice un po’ ridendo, come a chiedersi cosa ci faccio ancora lì in piedi sull’uscio.
Non so neanch’io che cosa sto aspettando.
È in momenti come questo che il nostro modo di pensare mi sembra così lontano dal loro.

Per un palestinese la casa è sempre aperta per te, sarai benvenuto in qualsiasi momento, anche se non vi siete mai visti prima.
In Italia guai se suona anche solo il telefono ad ora di pranzo.
Nelle case palestinesi veniamo invitati ad entrare e sentirci a casa, che stiano mangiando, dormendo, lavandosi o facendo qualsiasi altra cosa, anche importante.

In casa mia ci sono sempre quantità di cibo esorbitanti, eppure siamo presi alla sprovvista quando qualcuno capita nelle nostre case nelle ore dei pasti, quasi come se subissimo un’invasione e non una visita di qualcuno che ha piacere di vederci, di stare in nostra compagnia.
Desideriamo del tempo da soli, degli spazi per noi. Da soli.
Qualcuno potrebbe obiettare che voler stare da soli una volta ogni tanto non è nulla di male.
Quello che so io ora, dopo tre mesi in questo piccolo villaggio nel profondo sud della Palestina, è che nelle nostre società altamente civilizzate in Occidente i nostri spazi li cerchiamo con molta più apprensione di quanto cerchiamo la compagnia delle persone, anche di quelle a cui teniamo e che tengono a noi.
Perché? Perché non sopportiamo gli altri? Perché abbiamo cose più importanti da fare? Perché vogliamo semplicemente spazio? A forza di volere spazio attorno a noi, lo otteniamo. E poi lo soffriamo, terribilmente.
I palestinesi si metteranno le tue pantofole per uscire, il tuo cappello in testa, i tuoi vestiti, perché il loro “mio” e “tuo”, non è quello al quale siamo abituati.
Tutto questo affanno che abbiamo per stabilire ciò che è mio e ciò che è tuo... questo è ciò che penso quando siamo ospiti di una famiglia palestinese, e prendiamo cucchiaiate di magloube dallo stesso grande piatto, in cui alcuni usano anche mischiare direttamente il latte di léban caldo al riso.
Nelle case palestinesi ci offrono il loro cibo, quello che hanno; e se non ci aspettavano e non hanno preparato per tutti è un problema che sembra non sfiorare le loro menti. Mangeranno di meno loro, o lasceranno mangiare prima noi, gli ospiti.

Entro e mi avvicino, togliendomi le scarpe. Mi siedo vicino a lei e S. mi chiede:
- Com’è stata la tua giornata?
- Molto bella – rispondo.
Poi aggiungo qualcosa che non ricordo, e da lì parliamo per quelle che mi sembrano delle ore.
Più che altro S. mi parla, di tante, tante cose; e io ascolto.
Mi racconta di pettegolezzi, delle sue amiche e di cose d’amore, poi del suo Dio, dell’Islam, e poi ancora dell’attacco di qualche tempo fa.
Nel cuore della notte più di cinquanta coloni sono scesi dagli insediamenti illegali dove vivono come cittadini israeliani nei territori occupati palestinesi e hanno creato il caos tra gli abitanti di At-Tuwani. Sono entrati nel villaggio suonando tamburi e urlando, ufficialmente per protestare contro il volume troppo alto della moschea.
L’esercito israeliano, arrivato sul posto, non ha fatto altro che respingere con bombe sonore, lacrimogeni e fumogeni ogni palestinese che provasse ad avvicinarsi ai coloni... i coloni che avevano fatto irruzione nelle strade del loro villaggio, nella loro casa.
- La gente dormiva già. Le donne hanno portato tutti i bambini assieme in una sola casa e hanno detto loro di fare più rumore possibile con le pentole e i mestoli perché era una sera di festa; per non far sapere loro cosa stava succedendo fuori e per controbattere ai cori e ai tamburi dei coloni.
J. è stato ferito ad un braccio da una di queste bombe, mentre spostava un ragazzo più giovane che altrimenti sarebbe stato colpito in pieno petto. - continua S. - Mia sorella A. era molto vicina ai coloni, in prima fila con le altre donne. Minacciavano di bruciare la moschea, vi avevano acceso un fuoco proprio davanti. Lei urlava a pieni polmoni contro di loro ed è stata male per tutto il fumo che ha respirato. -
Per un attimo distoglie lo sguardo da me e fissa un punto imprecisato nel vuoto, come a parlare agli stessi coloni e soldati di quella sera:
- Mi chiedo: perché ce l’avete così con noi? Io non vi odio. E voi odiate noi -.
Nel suo viso non ho visto neanche un briciolo di disprezzo, neanche per un attimo. Sarei pronta a giurarlo, dice la verità. Ogni tanto vorrei dire qualcosa ma non trovo niente da aggiungere a quello che mi dice questa ragazza, forte come poche, che ho incontrato.Posso solo ascoltare davanti alla forza di questa gente, e alla loro bellezza anche di fronte a un’Occupazione che gli ha portato via tante cose e che continua a farlo.

Non so parlare dei palestinesi, della loro forza. E invece vorrei che tutti la conoscessero, che conoscessero queste persone, che vedessero la realtà della Palestina.
So perché. Non è per l’ammirazione che ho di loro e perché voglio che tutti la condividano. È perché vivo ora sulla mia pelle il momento in cui vedi queste persone, una per una, stringi loro la mano e diventano persone vere, reali, che conosci come conosci persone a casa tua, che inizi ad apprezzare nelle bellezze e a portare pazienza nei difetti.
È il momento in cui dai un volto ad un dolore, in cui vedi qualcuno che ti sta a cuore subire un’ingiustizia. Per me è stato il momento in cui sono passata dal voler vivere un periodo della mia vita a lottare per la causa di un popolo, a sentire che darei tutto per loro. La mia comodità, i miei spazi, il mio denaro, le mie sicurezze della vita occidentale.

Suona il mio cellulare, interrompendo il fiume di parole di S. e di pensieri che ho in testa e che mi hanno fatto annodare la gola.
Rispondo. Devo andare.
S. mi saluta con un sorriso, mi abbraccia e io la ringrazio per il tè.
Esco dalla casa, velocemente, perché appena chiudo la porta mi scende la lacrima che davanti alla mia amica ho trattenuto.

G.