Gli accordi di Pace non sono un contratto d'affari

Palestina

“E’ stata la prima permanenza a proteggere la patria dallo svenimento. Voi all’interno siete la forza materiale dell’identità nazionale e culturale. E l’interno ha un prestigio che supera l’incantesimo, perché e’ l’interno che ha dato alla causa palestinese la forza del miracolo”.
(Maĥmud Darwish; Parigi 05/10/1987)

 

Questa poesia parla d’amore! Parla dell’importanza della presenza del popolo sulla propria terra, dell’esaltazione della lotta continua portata avanti anche e sopratutto del rifiuto di abbandonare le proprie terre, della forza nel proseguire le attività più semplici, quotidiane.
L’ occupazione è lenta e logorante, si insinua in ogni aspetto della vita del popolo palestinese, ne regola i rapporti sociali personali, collettivi e ne gestisce le risorse.
Questi colloqui hanno chiarito una volta per tutte la distanza abissale che c’è tra Potere e Popolo, non solo tra forza occupante e paese occupato, ma anche e sopratutto le divisioni all’interno della stessa Palestina.

Al di là delle frasi di circostanza della Clinton e di Obama nel costruire le premesse per una autentica soluzione al conflitto, permane la mancanza di un parametro concreto per dibattere su questioni di importanza cruciale. La definizione delle frontiere che sottintendono la nascita di un ipotetico stato Palestinese, il destino di Gerusalemme, i milioni di rifugiati ammassati nei campi profughi di tutto il Vicino Oriente, l’insufficiente approvvigionamento idrico ai villaggi palestinesi, controllato e filtrato da Israele in maniera criminosa e l’ importantissima questione dei detenuti palestinesi nelle carceri militari israeliane. Questi sono solo alcuni degli argomenti che non possono non essere affrontati se si vuole realmente costruire una pace che non sia illusoria come le mediatiche strette di mano.
Gli stessi attori di questi colloqui destano preoccupazioni e molti dubbi, soprattutto nel popolo palestinese. Il mandato politico di Abu Mazen, per iniziare, non ha più legittimità elettorale nemmeno di fronte agli abitanti della Cisgiordania, di cui è dipinto come portavoce, e a Gaza quest’investitura è svuotata perfino dal controllo sul territorio. Di fatto un milione e mezzo di persone nella Striscia di Gaza sembra esclusa da questi colloqui. Sia esponenti della sinistra palestinese del Fronte Popolare che Marwan Barghouthi, il leader più popolare di Fatah in carcere dal 2002, accusano Abu Mazen di non aver imparato dagli errori del passato e soprattutto di aver commesso un gravissimo errore: accettare questi colloqui senza fare dei riferimenti precisi alle risoluzioni dell’Onu e ottenere garanzie internazionali riguardo la fine della colonizzazione israeliana dei territori.
L’opposizione palestinese è schiacciata dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che, durante tutto questo mese ha soffocato ogni tentativo di dissenso, come del resto ormai è pratica comune da diversi anni. La recente campagna di arresti, scattata dopo l’attacco armato del 31 agosto nella Cisgiordania occupata (in cui hanno perso la vita quattro coloni israeliani) e che ha visto come protagonista una parte dei servizi di sicurezza di Abu Mazen a caccia di attivisti e simpatizzanti di Hamas, evidenzia la svolta repressiva dell’autorità palestinese.
Dal lato israeliano, invece, se Netanyahu arriva al tavolo delle trattative da una posizione nettamente più forte, deve comunque rispondere agli oltre 450.000 coloni israeliani “residenti” in Cisgiordania che non sgombererebbero mai i loro insediamenti semplicemente per un suo ordine, ammesso e non concesso che abbia intenzione di darlo. Nel suo ultimo rapporto Peace Now riferisce che ben 13.000 nuovi alloggi per coloni potrebbero essere messi in costruzione il giorno stesso della fine della moratoria (26 settembre) dal momento che sono stati già autorizzati.
La poca credibilità dell’attuale leader dell’ANP deriva anche dai continui “lasciapassare” di raid israeliani in Cisgiordania, soprattutto all’interno delle cosiddette zone “A”, ovvero a controllo esclusivamente palestinese e in cui l’esercito israeliano non potrebbe nemmeno entrare. L’ ultima di queste incursioni è avvenuta il 17 settembre quando Ayad Abu Shaalbiyeh, comandante militare del movimento islamico Hamas, ha trovato la morte in circostanze ancora da chiarire. E’ opinione diffusa tra i palestinesi che Abu Shaalbiyeh sia stato ucciso perché ritenuto – assieme a un altro palestinese ora ricercato – responsabile dell’organizzazione dell’agguato vicino a Hebron rivendicato dall’ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, in cui sono stati uccisi i quattro coloni israeliani.
La lunga mano del “disciplinamento” israeliano si ripercuote, inoltre contro coloro che credono fermamente nella forza e nell’efficacia della resistenza popolare nonviolenta come pratica per opporsi all’occupazione militare israeliana. Esempio di questa strategia è stato ha ad agosto quando Abu Rahme, coordinatore a Bilin del Comitato popolare contro il Muro e la Colonizzazione è stato giudicato colpevole di aver organizzato “manifestazioni illegali” e di “incitamento”. Fortunatamente l’accusa più grave che gli era stata rivolta, e che riguardava il possesso di armi, è stata ritirata. Nonostante questo, e l’inconsistenza dei restanti reati che gli vengono attribuiti, la procura militare intende farlo incarcerare comunque per due anni. Secondo i comitati popolari palestinesi per Israele si tratterebbe di infliggere una «punizione esemplare» con finalità di «deterrenza», ossia mirata a scoraggiare lo sviluppo della lotta nonviolenta e della resistenza popolare palestinese contro il muro che ormai riceve sempre più consensi e appoggi anche a livello internazionale.
Questi colloqui, infine, rischiano di alimentare un pericoloso processo, iniziato molto tempo fa, che riguarda il tentativo da parte di Israele di normalizzare l’umiliazione del popolo palestinese. Questo per due ragioni: la prima è che per Israele, i palestinesi dovranno aspettare addirittura trent’anni per essere indipendenti, peraltro su di una porzione minima del loro territorio storico. Durante questa lunghissima attesa dovrebbero dimostrare di essere “capaci” di avere uno Stato. Solo dopo, Israele deciderà se e quando evacuare le sue colonie più isolate all’interno della Cisgiordania. In sostanza l’ANP di Abu Mazen dovrebbe rimanere “sotto test” per tre decenni, impegnata a dimostrare, sulla base dei criteri che imporrà Israele, di essere in grado di trasformare uno Stato provvisorio senza sovranità in uno Stato indipendente a tutti gli effetti. Dunque non solo essere costretti a chiedere il permesso per poter soddisfare anche i bisogni più basilari, ma anche vivere nella paura che, senza chiedere il permesso nel modo in cui Israele riterrà opportuno, si possa perdere il premio. Questa reificazione delle speranze dei palestinesi è parte di un’altra sfumatura dell’umiliazione, il tentativo di infantilizzazione di un popolo che invece continua a resistere a testa alta.
La seconda ragione deriva dalla richiesta di Israele di essere riconosciuto come “Stato del popolo ebraico”, basato su criteri di appartenenza identitaria e religiosa che darebbero ulteriore fiato agli israeliani nazional-religiosi per mettere in discussione i diritti della minoranza palestinese, a partire da quello di cittadinanza. Non solo. Di fatto rappresenterebbe anche una rinuncia al diritto al ritorno dei profughi palestinesi nella loro terra d’origine (oggi Israele) e un’inevitabile condanna per tutti quegli arabi che attualmente vivono in Israele. Immaginate cosa significherebbe anche per la storia il crearsi di un così pericoloso precedente come la formazione di uno Stato basato solo sull’essere ebreo, quindi basandosi su un carattere culturale ereditario, un gruppo parentale ed etnico di forte connotazione religiosa?