Sumud

“Faddalu, faddalu!” gracchia T. con la sua voce roca, graffiante e graffiata.
Ci sediamo ed io, ringraziandolo, lo guardo in volto: la keffiah e la lunga barba incorniciano il suo viso, sul quale vedo una rappresentazione del paesaggio alle sue spalle, quasi fosse una mappa.
Le colline della Massafer Yatta si accavallano le une sulle altre in maniera caotica, disorganizzata, selvaggia, mentre le valli si insinuano fra le alture, ricamandosi una via di uscita, disperdendosi in tutto lo spazio.
Il volto di T. imbrunito dal sole e dalla polvere non lascia alcun dubbio, lui È parte di questa terra: le rughe che ricoprono il suo volto sono indistinguibili dalle valli che si ramificano sullo sfondo dietro di lui e solo il grigio della barba spezza una continuità altrimenti perfetta.

Suo figlio siede con noi, dopo i soliti convenevoli dal nulla inizia a raccontarci di come suo padre abbia quasi perso la voce e la vita, di come un soldato gli abbia sparato in faccia, proprio sotto l’occhio ed abbia mancato la colonna vertebrale per soli 2 centimetri, di come quella fosse una vendetta nei confronti del fratello che pochi giorni prima aveva colpito un soldato, di come il soldato abbia poi raccontato che T. gli aveva rubato la pistola e si era sparato da solo, di come per questo l’abbia fatta franca.

Durante tutto il racconto del figlio, T. ridacchia allegro, una punta di amarezza increspa il suo sorriso, ma i suoi occhi sono sereni. Interviene quando il figlio ha finito di parlare e mi dice “Sai, quando è successo tutto ciò ero sposato da un anno, ma non avevo ancora avuto un figlio e dopo questo incidente sono rimasto un anno in ospedale e per altri 4 anni non ho avuto figli. Insomma, ho passato 6 anni di matrimonio senza avere neanche un bambino! Ma ora – si gira verso la moglie e le rivolge uno sguardo tanto dolce quanto complice – ora ne abbiamo ben dodici!” dice con orgoglio.

Seguono alcuni minuti di silenzio, T. è assorto nei suoi pensieri, lo sguardo perso a rincorrere vecchi ricordi. Ricomincia a parlare, ci racconta che dopo questa disgrazia sua moglie ha deciso di lasciare la sua terra e trasferirsi in città con i figli. Lui no. Ha deciso anche lui di trasferirsi, ma lo ha fatto più in alto sul fianco della collina, più vicino all’avamposto israeliano da cui quel maledetto giorno erano usciti i soldati e da cui ancora oggi escono solo rabbia e violenza.

Sumud, resilienza, restare sulla propria terra, farlo ad ogni costo. Sumud, una parola, un suono, un ideale difficile da cogliere e da accogliere, ancor più difficile da comprendere e da abbracciare. Sumud è T. con la sua casa sulla collina; Sumud è I. che semina, avanzando un passo dopo l’altro mentre la foschia si dirada rivelando a un paio di passi da lui la Bypass Road su cui sventola una grossa bandiera israeliana, mentre sullo sfondo fanno capolino le ciminiere e le tettoie della colonia; Sumud è lavorare i propri campi, camminare sulle proprie strade, costruire le proprie case, vivere la propria vita.
Sumud non è sopravvivere, Sumud è vivere con la piena consapevolezza di quanto sottile sia la linea che divide le due cose, e di quanto sia allo stesso tempo incolmabile la distanza fra queste due.