Fuoco o brace?

- Ore 7:32 rapporto dalle vedette: “In sella”. È il segnale, bisogna terminare i preparativi e tenersi pronti ad entrare in azione.

- Ore 7:38 nuova comunicazione: “Sono all'allevamento di polli; no Army”. Equipaggiamento in spalla e si parte verso il punto d’ingaggio.

- Ore 7:41 ultimo messaggio, come secondo i piani: “Fuori vista”. Le vedette mantengono la posizione, pronte ad intervenire ma ora sta a noi, fra poco avremo l’obiettivo in vista.

- Ore 7:49 dovremmo già vedere l’obiettivo da alcuni minuti, invece sul fianco della collina non si muove una foglia. Con la tensione che increspa la voce, parte la chiamata “Hallo ***, fi jesh?” (Ciao ***, c’è l’esercito?) - “Na’am ehna mniji” (Sì, stiamo arrivando).


Adesso fermati, smetti di leggere un momento e rifletti: quale scenario si è formato nella tua testa? Cosa immagini, cosa provi? Cosa ti aspetti ora?

Le vedette: i volontari
L’equipaggiamento: la videocamera
L’azione: lo School Patrol
L’obiettivo: una decina di bambini

Questo cambia tutto, vero?

Una manciata di bambini che due volte al giorno viene circondata da fucili ed anfibi, che sulla strada per la scuola viene scortata da giubbotti antiproiettile e granate.
Finalmente li vedi apparire in cima alla collina, intravedi il velo bianco delle due ragazze più grandi seguito da due elmetti e dai lampeggianti della Jeep.
A questo punto vieni assalito da emozioni contrastanti: da un lato c’è il sollievo di sapere che anche oggi i bambini arriveranno a scuola sani e salvi, al sicuro dalle violenze dei coloni.
Dall’altro questa stessa sensazione di leggerezza ti fa infuriare.
Si parla pur sempre di bambini, maledizione!
Ai due lati della strada lungo cui questi camminano, ci sono recinzioni e filo spinato, dietro di questi i coloni si impastano la bocca di vuota retorica sull’appartenenza atavica masticando fino alla nausea le parole “sicurezza” e “riappropriazione” mentre strampalate teorie sul diritto divino frizzano e ribollono sulla loro lingua.
Non giovani con il volto coperto e la spranga in mano, non terroristi con indosso un giubbotto esplosivo, non guerriglieri con il Kalashnikov ma bambini dal sorriso disarmante, che camminano verso la scuola.
Ecco contro chi “combattono” in nome di questi onorevoli ideali i coloni.

Ok, così non va.
O forse sì.
Rileggo ciò che ho scritto, metto il computer da parte, chiudo gli occhi ed inizio a pensare.
Mi torna in mente una conversazione avuta durante la formazione: un tipo affermava di non arrabbiarsi da più di 20 anni, che la rabbia è un’emozione negativa, che non porta nulla di buono e che anzi, lo spaventa.
Avevo risposto con durezza, dicendogli che la rabbia è un’emozione forte, esplosiva, una fonte di energia incredibile che dovremmo sfruttare e non reprimere.
È importante arrabbiarsi ma non essere rabbiosi: non lasciare che le braci ti consumino da dentro, ma lasciarsi avvampare e sfruttare questo fuoco per dare nuovo senso alla nostra presenza,
perché capita a volte di abituarsi, di adagiarsi sui morbidi cuscini della quotidianità e della rassegnazione ed è la cosa più sbagliata che possiamo fare.
Dopo 3 mesi sono contento di riuscire ancora ad infiammarmi e bruciare questi cuscini, mentre l’empatia dei miei compagni, il sorriso luminoso dei bambini e quello placido e sereno degli uomini e delle donne del villaggio lo tengono sotto controllo e mi aiutano a trasformarlo in energia costruttiva.
Dopo 3 mesi sono contento di sentire che ancora brucio, di sentire che insieme a tutte le persone che mi circondano, non sopravvivo e basta ma lotto perché io e loro possiamo sentirci vivi.

M.