Omar

Omar
che letto al contrario è ramo
e sul ramo ci stanno frutti e fiori,
lui ha scelto il villaggio di Tuba
dove le albe sono albori del mondo
dove le sue preghiere salgono
dal fondo della sua voce
che intona un canto dolente
a tratti gioioso
le sue figlie in attesa di uno sposo
che forse le porterà lontano
mentre ora sono tante come le dita
di una mano, Omar sembra un sultano

più che un pastore, il suo pensiero
avrebbe fatto rumore se solo avesse
potuto o voluto studiare
e proprio perché ama pensare
soffre di emicranie e di depressione
la malattia di chi resta schiacciato
sotto il peso della sua passione, di chi
non regge l’urto della tensione
a vivere nella pienezza dei gesti
e delle poche parole,
Omar, che prima che si alzi il sole
inizia a pregare da solo
perché il suo ruolo è quello
di spianare la strada verso il suo dio
che illumina e scalda più di una stella,
la grotta in cui vive sembra una stalla
in cui è nato il Cristo salvatore
non di lui ma di altri più a occidente,
per Omar – credente – coincide con umano
forse per questo non ha sentito l’urgenza
di andare lontano - di spostarsi da questa terra
lui è rimasto qua nonostante la guerra mascherata
dell’occupazione, andarsene sarebbe stata
la prigione a vita, la ferita che non si sarebbe
mai rimarginata, così ha scelto una vita
solo per noi disagiata, mentre per lui
è l’accoppiata perfetta tra umano e divino.
Quando sorride è un bambino, quando è serio
è un vecchio, ogni tanto il suo sguardo
è un secchio calato nel pozzo della sua coscienza,
Omar crede non solo in Allah
ma nella riverenza verso ogni forma di vita
scolpita nelle sue rughe
che sono la fuga del tempo sulla sua pelle.
La sua vita non è stata ribelle, ma quella
di un perfetto conservatore e sotto la scorza
- a tratti reale del padre padrone –
si nasconde l’uomo capace di amore.