Sumud (ricordi di resistenza)

“Hanno spezzato gli ulivi di H. in Khelly”.
Io e C. prendiamo le telecamere e ci avviamo.
Arriviamo sul posto, è appena dietro casa, e iniziamo a fare foto.
Cerchiamo di trovare il punto in cui è possibile far vedere lo scempio di questo gesto.
Facciamo tante foto, iniziamo a contare gli ulivi.
Uno, due, tre, quattro, … “Sono 18?” “Sì, 18 ulivi”.
Ci guardiamo, siamo arrabbiate e facciamo fatica a dire qualcosa ad H.
Osservo i ragazzi, gli stessi che avevano piantato gli alberi pochi giorni prima, li osservo mentre filmano e fanno foto.
Cosa si può provare dopo l’ennesima volta che ti distruggono ciò che tu pianti e costruisci con fatica?

Guardo il piccolo D. correre avanti e indietro per il campo.
Stiamo tutti aspettando l’esercito e la polizia che vengano a fare i sopralluoghi.
L’attesa è lunga e silenziosa, dà il tempo ad H. di trovare le parole per tutti noi, per la nostra rabbia.

Anche lui è arrabbiato, non può fare a meno di pensare ai ragazzi che hanno piantato questi ulivi, alla fatica e all’amore che ci si mette per farli crescere sani.
L’ulivo è sacro, richiede tempo e pazienza, i suoi frutti non sono immediati e richiedono grandi cure.
Con che coraggio si può spezzare una pianta, la sua ricchezza e la fatica?
Fa rabbia, verrebbe voglia di distruggere a nostra volta il boschetto che nasconde le mani e i volti di chi distrugge ciò che è rigoglioso e simbolo di vita.
Eppure, ci ricorda H., non è questo il modo di resistere: non è distruggendo, ma piuttosto costruendo e restando su questa terra che si resiste all’occupazione.
Si riceve violenza, ma si risponde in modo nonviolento.
Resisto, resto sulla mia terra, resto umano anche se mi si vuole ridurre a nulla.
La mia dignità si misura in questo: nella capacità di restare e di costruire quando si vorrebbe da me che scomparissi, che non esistessi.

Il piccolo D. si avvicina e dice ad H. “Zio, domani torniamo qui e li piantiamo di nuovo gli ulivi”.
Mentre suo zio, i suoi cugini e i suoi fratelli parlano con la polizia e l’esercito, il piccolo D. inizia a prendere i giovani ulivi spezzati e li ripianta uno ad uno nella terra.
Io e C. ci guardiamo.
Quel gesto mi toglie il fiato, trattengo a fatica le lacrime.
Un bimbo così piccolo mi indica la strada da seguire: ci si deve rimboccare le maniche e pensare al domani, si pianta di nuovo.
D. è specchio di ciò che riceve, della parola che si fa azione nonviolenta e costruttiva.
E’ specchio degli adulti che ha attorno e che gli hanno indicato la strada non solo a parole, ma con il loro esempio quotidiano.
Improvvisamente sono io a sentirmi piccola, perché sento di avere di fronte a me qualcosa di immenso e di prezioso.
Riesco a sentire, accanto alla tristezza, un’enorme forza che mi dà speranza, tutta quella che serve per ricominciare.
Sento tutta la convinzione che serve per ripiantare un ulivo, ricostruire una casa, andare a scuola, portare al pascolo le pecore, vivere nell’occupazione ogni giorno sapendo che qualsiasi pezzo di vita può essere distrutto più e più volte.
Ciò che H., i ragazzi, il piccolo D. e l’intero villaggio mi ricordano è che non è importante quante volte spezzeranno gli ulivi o distruggeranno la tua casa; il senso è resistere restando sulla tua terra, costruendo di nuovo, restando capace nel tempo di ricominciare nonostante la rabbia e nonostante il dolore.
 
La sento tutta questa forza e non posso fare a meno di commuovermi, di sentirmi grata per essere qui ed essere testimone con i miei occhi.
So che qualsiasi cosa accadrà mi porto dentro questa immagine, che nessuno può togliermi questo ricordo e soprattutto so che nessuno può togliere loro la profonda dignità che dimostrano ogni giorno restando sulla loro terra, piantando un albero, andando a scuola.
Nessun albero spezzato, nessuna casa demolita, nessun attacco può togliere loro l’umanità di cui continuano ad essere capaci quando rimettono a posto le macerie, quando ricostruiscono partendo da ciò che resta.