Alba

Hafez spezza una focaccia allo za’atar.
I suoi occhi brillano come quelli di un bambino. Il suo volto si rilassa, i segni del tempo fuggono. Ringiovanisce di vent’anni, per un momento.
"Vedi Mirta".
Hafez è in grado di dare potenza ad ogni parola. La pronuncia - con una voce che non si può descrivere: è la voce di H e basta - le dà vita, la soffia nel mondo donandole coraggio, forza, solidità. La accompagna, dalla sua gola alle orecchie del mondo, e in quel cammino ogni parola scopre se stessa.
"Vedi Mirta".
Eccomi, Hafez. Mi chiami per nome e io so che stai per dirmi qualcosa di importante.
Lo sento dal tono, così solenne e così limpido.
Lo vedo dai tuoi occhi: i tuoi brillano quando pregusti la focaccia, ma brillano di una luce più profonda, di una luce che viene da molto lontano quando parli di resistenza.

Attraversa i secoli questa luce. Si muove e si fa strada tra i tuoi ricordi Hafez, tra tutto ciò che hai vissuto. La riconosci come dono questa luce, eredità di tua madre, tesoro prezioso.
Inshallah, non ti abbandonerà mai questa luce, Hafez.
"Vedi Mirta, il nostro compito è quello di risvegliare in loro, la loro umanità".
Ecco cos’è la resistenza per te, Hafez.
Ecco come tu vivi la resistenza, ogni giorno, ogni ora, ogni secondo della tua esistenza.
A tua moglie, prima di sposarla, hai detto che prima di lei, sempre, sarebbe venuta la resistenza. E così è stato. E così è.
Hai consacrato la tua esistenza alla resistenza, a suon di arresti, di botte, di privazioni.
Per la resistenza, ti sei privato del sonno, preferendo aspettare lucido e ben vestito i soldati che così spesso venivano a prenderti di notte a casa. Per la resistenza ti sei privato di una vita tranquilla a pascolare le capre, divenendo tuo malgrado voce di profeta. Per la resistenza hai rischiato e rischi ogni giorno di essere privato dei figli che hai generato.
E la resistenza per te, Hafez, è impegnarsi a risvegliare l’umanità sopita in chi incontri, siano essi israeliani, palestinesi indifferenti all’occupazione, volontari alle prime armi, internazionali in visita. Ma soprattutto è risvegliare l’umanità sopita di quegli israeliani - soldati, poliziotti, coloni - con cui quotidianamente ti interfacci e che sembrano rivelare tutto fuorchè umanità nel loro relazionarsi.

Come quella mattina, prima di spezzare la focaccia in una panetteria.
All’alba, un gate: cancello di ferro in un muro di ferro che apre la terra come una ferita.
Uomini del tuo popolo che sorseggiano un tè, un caffè nella fredda attesa di poter varcare un cancello per raggiungere le loro terre, fagogitate da Israele, senza remore.
Quotidianamente attendere dall’altra parte del muro l’arrivo di soldati che aprono il cancello. Quotidianamente varcare il cancello e vivere la stessa umiliazione, alla stregua di criminali, alla stregua di bestie: mostra il documento, apri lo zaino, srotola il permesso. Lascia dalla tua parte la bicicletta: non puoi accorciare il tragitto dal gate alle tue terre.
Cammina per ore, oppure paga il pulmino.
Non puoi pagare? Non puoi camminare? Non importa, la bici non passa.
E, mentre io, quella mattina, assistevo senza parole all’umiliazione di un uomo anziano zoppicante costretto a spingere la bicicletta verso casa, senza possibilità di andare a lavoro, tu, Hafez, ti eri avvicinato alle due giovani soldatesse che controllavano il gate e con loro avevi iniziato a dialogare.
Non so, Hafez, dove tu possa trovare in ogni momento questa forza: la forza di non cedere allo sconforto, la forza di non rimanere senza parole, la forza di continuare sempre a sperare, a credere.
Credere fermamente, con tutto te stesso, con ogni tuo respiro, con ogni battito del tuo cuore che in ogni persona risieda umanità.
Credere che ogni israeliano abbia umanità in sé, anche dopo aver visto e provato sulla tua pelle la violenza di così tanti israeliani, dopo più di vent’anni di aggressioni, intimidazioni, soprusi quotidiani contro di te e contro il tuo villaggio. Dopo aver quasi perso una figlia, intossicata dai fumi di lacrimogeni israeliani. Dopo aver assistito agli arresti dei tuoi ragazzi. Dopo la richiesta disumana di consegnare il tuo primogenito a Israele. Dopo aver trovato così tanti ulivi spezzati e sradicati. Così tante scritte invocanti la morte degli arabi. Così tante abitazioni demolite. Così tanti chiodi buttati sulle strade.
Credere che in questi israeliani l’umanità non sia morta ma solo addormentata e che debba con fatica e a caro prezzo essere svegliata, riportata alla luce.
E tu, Hafez, soffi sulle braci consumate e quasi spente della loro umanità. Ti fai brezza leggera che ravviva la fiamma, lampo di luce che compare nell’oscurità di un’umanità dimenticata. Laddove c’è un soldato che imbraccia un mitra, tu vedi anche un uomo.
Laddove c’è una soldatessa che nega l’entrata di una bicicletta, tu vedi una mancata amica.

Come quella mattina, che, avvicinatoti, hai iniziato a dialogare con una donna, armata, dall’altro lato del muro. Perchè le parole sono la tua risorsa, la tua ricchezza, le tue armi. Con le parole tenti di scalfire quell’indifferenza, quella risoluta spietatezza; tenti di aprirti una via verso il cuore umano, pulsante, vivo.
Con le tue parole vuoi seminare dubbi in inculcate certezze.
Vuoi smuovere coscienze, vuoi mostrare nuove prospettive, condividere sogni, risvegliare speranze, svegliare menti addormentate nel male.
Vuoi piantare semi di verità in campi apparentemente sterili.
Semi di nonviolenza, semi di condivisione, semi di convivenza.
"You know, girl, it’s just a bike. This man just wants to go to work. Let the bike go in, it’s just a bike".
"It’s just a bike to him, but it means jail to me. It’s the law. If I break the law, I will go to jail. He won’t: it’s just a bike to him".
Ed è in questo preciso momento, Hafez, che il tuo cuore ha sussultato ed esultato.
Hai visto bene, Hafez: non tutto è veramente perduto.
In questa soldatessa, che quattro volte inutilmente chiama i suoi superiori per una bicicletta e che imbraccia noncurante il mitra, c’è umanità.
Umanità addormentata, gravata da una politica brutale, da decenni di razzismo e istigazione alla violenza. Umanità addormentata, che non ha le forze o la possibilità o il coraggio di ribellarsi a ordini e leggi disumane, di aprire gli occhi e guardare in faccia la verità delle cose. Umanità addormentata, che nasconde sotto un pesante tappeto la possibilità di riconoscere nell’altro un altro sé.
Che non si interroga, che non si ribella, che non lotta.
Umanità addormentata, che ogni mattina, prima del sorgere del sole, apre un cancello di ferro in un muro di ferro: one wall, two jails.
Umanità addormentata, che non riesce a vedere la dignità mai persa ma sempre calpestata di chi si trova al di là del cancello.
Umanità addormentata, abituata e complice di disumanità.
Ma tu hai gioito, Hafez, di fronte a tutto questo, perché le parole di quella soldatessa hanno aperto uno spiraglio. Il suo cuore tentenna guardando quel muro; la sua coscienza, nel profondo, le suggerisce che qualcosa stona nella politica del suo Stato.
E tu puoi far leva sul suo cuore, dialogando con lei: puoi gettare un amo e forse si lascerà trascinare dal tuo sguardo, dal tuo mondo, dalla tua forza, dalla tua speranza.
Così liberi le tue parole, le racconti di quello che succede al tuo villaggio, di come non tutte le leggi siano necessariamente giuste, di come Israele stia distruggendo il tuo popolo, di come lei sia un piccolo ingranaggio del sistema.
E lei ti ascolta, guarda il tuo volto, il suo orologio e dietro alle tue spalle i lavoratori in ritardo. Ma ti ascolta.
Le chiedi se è convinta di quello che fa. E lei ti risponde.
Ti risponde che è quello che deve fare, è il suo compito e lo fa. Non vuole guai, solo fare il suo dovere e andarsene. Aprire un cancello alle 6:00 e chiuderlo alle 6:10. Per tornare alla sua vita e sapere che ha fatto il suo dovere, senza farsi domande. Le chiedi se le piace il muro. Ma a lei il muro non piace, lo guarda e non le piace. Ma c’è. Cosa può farci?
Le 6:10 sono arrivate, il sole è sorto, gli uomini come bestie hanno attraversato il cancello. La ragazza ha finito il suo lavoro.
Ma oggi è un giorno diverso, perchè dall’altro lato del cancello appena chiuso, un palestinese la guarda, un uomo le parla:
"Maybe one day we can have a tea together. I will invite you to my home and we will have a tea. But now there are this gate and this fence. I wish there weren’t".
"So do I".
Ed è sincera la voce di quella israeliana, di quella ragazza che, dando le spalle al cancello, si incammina nella direzione opposta a quella di Hafez.

Quella mattina, mentre Hafez spezza la focaccia allo za’atar, gli chiedo se la ragazza ripenserà alle sue parole, se si lascerà interrogare e cederà alla possibilità di osservare le cose da un’altra prospettiva. Se finalmente vorrà ribellarsi e scrollarsi di dosso quel torpore che la rende complice.
"Non lo so, ma intanto noi ci abbiamo provato".

M.