Tornare è diverso

Sono le tre del mattino di una calda giornata di Giugno quando atterro sul suolo israeliano.
E’ la seconda volta che mi trovo qui, con quelle speranze e paure che ora si sono fatte concrete, e non sono solo più un’idea.
Non è stato difficile decidere di tornare, decidere di vivere ancora una volta un piccolo pezzo della mia vita lì, in quella terra di ulivi ed ingiustizie.
Sarà tranquillo, mi dico, alla fine sono quattro mesi che sei a casa, andrà tutto bene.
Sono le tre del mattino quando un agente dell’immigrazione mi dice che no, qualcosa nella mia storia non torna, e che devo aspettare.
C’è qualcosa di strano in quel mio ritorno, ed aspetto, davanti alla porta di quell’ufficio che deciderà, ancora una volta, del mio futuro qui.
Ed è stato così che, nel giro di poche ore, ho ricordato cosa fosse l’occupazione.
“Sei già espulsa, credi che non sappiamo cosa tu abbia fatto in quei tre mesi?”.

E’ questa l’accusa che mi rivolge l’ufficiale dell’immigrazione che si occupa del mio visto di entrata. Urla. Eppure io non ho fatto nulla di male, in cuor mio so questo, ma per un attimo dubito. E la fortuna mi assiste, perché alle sei del mattino di una calda giornata di Giugno esco dall’aeroporto con un visto di due mesi che è come oro nelle mie mani, dopo la paura dell’espulsione.
E’ una calda mattina di fine Giugno, quando rivedo la Palestina.
E’ diversa da come la ricordavo: ha abbandonato i campi pieni di fiori e di erba dell’inverno, ricoprendosi di un aspra sabbia e terra desertica.
Il cielo è sgombro di nubi, azzurro come mai ho visto in vita mia, e rimane illuminato fino a tarda sera, nelle giornate d’estate.
La gente sorride, mi chiama per nome, ed è come se quei quattro mesi passati in Italia in realtà fossero solo due giorni di riposo, come se mai me ne fossi andata.
“E’ andata bene, sei qui alla fine” mi dicono quando sanno di ciò che ho passato in aeroporto, ed io sorrido, perché ancora una volta quelle persone semplici mi ricordano cosa è davvero la vita.
Sono passati tre giorni, quando succede qualcosa.
L’occupazione è ritornata, più violenta che mai.
E’ una calda mattinata di Giugno quando, con arbitrarie ragioni, arrestano proprio te, un ragazzino di 15 anni che nulla sta facendo, se non camminando nella propria terra.
Con violenza, in pochi minuti, quella calda mattinata di Giugno ti ricorda ancora una volta cosa è l’occupazione.
Vieni portato via, e la realtà torna prepotente nella mia mente, all’allontanarsi di quella camionetta.
Ti accusano di aver picchiato un soldato.
Le accuse sono infondate, andrà tutto bene, è questo che ci diciamo in quelle ore che un intero villaggio si stringe attorno alla tua sorte, mentre aspettiamo nella nostra casa, con la tua famiglia, che a volte sembra consolare noi.
E così è, perché le accuse non hanno prove che le supportino, e tu torni a casa, un po’ più stanco, ma sorridendo.
“Sapete che non potevo dormire, una luce ad intermittenza mi ha tenuto sveglio tutta la notte?” inizi così a raccontarci quei due terribili giorni, quando la casa è finalmente vuota, e l’uomo lascia spazio al ragazzino di 15 anni che sei.
Hai aspettato che tutti andassero via e nell’intimità di questa piccola casa, dispersa in un villaggio di pastori della Palestina, ci racconti cosa ti è successo.
Mi viene da piangere, guardo l’altra volontaria e capisco che anche lei prova i miei stessi sentimenti, la mia stessa rabbia, mentre sentiamo i tuoi racconti.
Eppure tu sei lì, che tra un sorriso timido e gli occhi lucidi continui con le tue storie, le tue parole, che ora escono a fiumi, e che testimoniano ciò che hai subito a causa di questa ingiusta occupazione.
Sai caro A, non so quando tu sia cresciuto così in fretta.
Solo quattro mesi fa mi sembravi diverso, sembravi un ragazzo, mentre ora, lucidamente, ci racconti del tuo arresto.
Ci sorridi, quando, in una calda serata di Giugno, ci dici che vorresti venire in Italia per raccontare della tua esperienza, perché ritieni che tutto ciò possa essere un esempio di come la Resistenza cambi le persone, e di cosa l’occupazione faccia.
Di come essa strappi i sogni di un bambino, che nasce in uno Stato senza diritti, e che ogni giorno combatte per la propria libertà.
Sei proprio diventato adulto, mi viene da pensare, mentre ti sento parlare della Resistenza e dei tuoi ideali, e quell’arresto, quei giorni di dolore, sono solo un ricordo.
Un ricordo che presto cancellerai dalla tua mente, perché non sarà né la prima né l’ultima volte che ti troverai lì, indifeso, in quella stanza con una luce lampeggiante che non ti lascia dormire.
“Dove vedi il tuo futuro?”
“Nella Resistenza” rispondi ad una giornalista con sorriso beffardo, come se quella domanda fosse stupida ed inutile.
E così è, per chi ti conosce.
Quando mi dicevano che tornare era diverso, in parte non ci credevo.
“Si ricorderanno di te, avrai un altro ruolo, sarai diversa agli occhi dei palestinesi”, ed io ridevo a queste cose, dicendo che non era vero, che dopo mesi nessuno si sarebbe ricordato di una tra le centinaia di volontarie.
Ed ancora una volta mi sbagliavo, come è sempre successo nelle questioni importanti della mia vita.
Perché tornare è diverso che arrivare una prima volta: ricordi ancora i nomi delle colline e delle valli, delle persone, ti congratuli per i nuovi nati e sorridi, a quei volti che sono ormai amici.
Che sono anche famiglia.
Che avevi lasciato bambini e torni che sono adulti.
Perché quattro mesi qui, in Palestina, cambiano le persone.
Cambiano te, che arrivi dal tuo mondo occidentale di libertà e privilegi ed incontri per la prima volta l’occupazione; come possono non cambiare chi nasce in questa aspra terra desertica fatta di ingiustizie e sofferenze.
Eppure, caro A, per quanto tu possa essere cambiato, sei ancora lì, con quel sorriso beffardo e il volto da bambino, che mi sorridi.
E’ stato così, il mio ritorno in Palestina.
Ancora adesso, a metà del mio viaggio qui, in questa terra di ulivi, delle mattine mi sveglio e mi sembra di non essere mai partita.
Quell’Occupazione di cui durante la mia prima Vita qui avevo avuto un assaggio, stavolta ha deciso con prepotenza di farsi avanti.
O forse sono io che la percepisco diversamente, la percepisco con più forza, o meglio dire, diversa.
Tra 30 giorni lascerò questa terra arida, che 30 giorni fa ho riabbracciato con dolore.
E sai, A., tu sarai il ricordo che mi porterò via, da questa mia seconda Vita qui.
Mi sono promessa che ti dirò tutto ciò che ho scritto qui prima di partire, perché voglio che tu sappia che hai ragione, quando dici che la tua esperienza possa essere un esempio per tutti.
Perché, alla fine, è per i sorrisi come i tuoi, che ogni volta si ritorna.
Si ritorna per chi, come te, non cede a questa occupazione brutale, ma la sconfigge lottando ogni giorno per un futuro migliore.
Un abbraccio, caro A.
E grazie. Perché, ancora una volta, sono dovuta tornare in Palestina per ricordarmi cosa voglia dire davvero vivere.

L.