In maniera diversa

Sono S., una volontaria jadid (nuova), anche se oramai non più così tanto - sono arrivata da quasi 6 settimane.
Sono stata "fortunata" perché in questo lasso di tempo l'occupazione si è palesata meno che in altri periodi.
Ho avuto i miei spiacevoli incontri con coloni, esercito e polizia, ma si può dire che nelle ultime settimane la situazione è stata relativamente tranquilla.
Shuai shuai, con le mie insicurezze e con il mio arabo estremamente risicato, entro a far parte di questa comunità.
Imparo i nomi delle donne, dei bambini, degli uomini.
Loro imparano il mio, e io mi godo gelosamente questi momenti.
Non so precisamente quando, ma inizio a sentirmi a casa.
Ad At-Tuwani con le terre e le colline che circondano questo villaggio, con quei nomi che il primo giorno mi sembravano così difficili da ricordare.

Tra un kif alak (come va) e un shu ismki (come ti chiami), caffè, storie di resistenza, maglube (piatto tipico: riso e pollo), bambini per casa, cetrioli da affettare minuziosamente per aiutare le donne del villaggio a preparare grandi cene (perché non tagliarlo normale mi chiedo - giuro, se lo chiederebbe chiunque dopo un quarto d'ora), lezioni di arabo e accompagnamenti in pastorizia, passano le giornate.
Mi piace accompagnare i pastori.
Chi l'avrebbe mai detto che sarei stata capace di passare ore sotto il sole cocente della Palestina nei suoi mesi più caldi, in compagnia di capretti e pecore.
Invece, mi accorgo che questi momenti mi scaldano il cuore.
Sono serena.
Oggi ci hanno comunicato che una squadra mista di soldati e polizia è andata a "far visita" al villaggio palestinese di Tuba.
I ragazzi palestinesi ci mandano le foto e i video - è stato tutto così veloce che non hanno avuto il tempo di chiamarci.
Sono arrivati, hanno chiesto i documenti delle persone presenti, hanno girato per il villaggio e sono entrati nelle case.
Sono confusa e spaventata.
Guardo le foto che abbiamo ricevuto: riconosco quelle case.
T., un pastore che ho accompagnato tante volte, è sulla porta e al suo fianco c'è un soldato, c'è H., quindicenne, un pastore anche lui, con una telecamera in mano che filma; riconosco la sorta di veranda in cui ho dormito sotto le stelle la prima notte che ho passato nel villaggio di Tuba: in quell'angolo ora ci sono soldati.
Non è successo niente, se ne sono andati minacciando che sarebbero tornati presto, stanotte forse.
Così, oggi ho sentito l'occupazione in maniera diversa.
Sono a conoscenza di tutte le ingiustizie che subisce questa comunità, ho ascoltato tante storie di resistenza, ho letto articoli, ho guardato video - mi sono arrabbiata, mi sono venuti i brividi e lacrime sono scese dai miei occhi.
Oggi, però, quanto accaduto mi ha colpito in maniera diversa.
Sono ingenua, ma oggi ho avuto paura per T., per H. e le loro famiglie; mi hanno accolta in quelle case offrendomi tè fumante, pane appena sfornato e cercando di capire il mio arabo da principiante - in quei stessi luoghi, oggi, soldati e soldatesse sono entrati, spavaldi e aggressivi, con le loro uniformi, con le loro armi.
Nessuno si è tolto le scarpe.
Nessuno ha bevuto del tè.
Mi chiedo se T. sia stato spavaldo come sempre, se H. abbia avuto paura.
Perché erano lì?
Torneranno?
Inshalla la (no).
Oggi ho percepito questa violenza gratuita in maniera diversa.
Rispetto a ieri e all'altro ieri, ho percepito una paura e un'incertezza che, così concrete, non avevo ancora provato.
Dentro di me, i terribili racconti di arresti, raid e attacchi erano ancora separati dalla relativa calma quotidianità estiva del villaggio.
Ora non più, quella separazione si è frantumata.
La realtà dell'occupazione si è fatta ancora più reale.

S.