Parte di questa resistenza

Tempo palestinese, tempo dilatato.
In realtà questa volta siamo stati nei tempi e alle sei e qualche minuto del pomeriggio siamo effettivamente nel furgone. Bisogna fare accompagnamento ai pastori della Jordan Valley, mi ripropongo di andare, due giorni fa ci sono passato ma non ho avuto modo di conoscere bene i pastori e la zona, però è cresciuta a dismisura la curiosità.
E’ difficile stare dietro ai programmi, ho deciso che ci rinuncio e mi faccio trascinare, per ora so soltanto che l’accompagnamento si farà la mattina successiva mentre dormiremo in giro.
In giro dove mi hai chiesto? Non saprei dirtelo, davvero, però mi sembra di aver colto che si dorma nella casa abbandonata che abbiamo visto l’altro giorno, quella di I.
Si lo so, neanche io ho capito bene chi sia I, dev’essere un contatto di H ma dopo ti spiego meglio.

Allora si parte: metto la camera nello zaino e poso lo zaino sul retro del furgone, sto per chiudermi la porta alle spalle e mi ricordo del marsupio con i documenti e il passaporto che è in casa allora torno dentro a prenderlo, sì, se non l’hai ancora capito sono un po’ nervoso, ho paura di combinare qualche cavolata.
Quando il furgone parte mi sto ancora chiedendo se la camera l’ho messa nello zaino come ho appena detto.
Per un po’ il paesaggio che già conosco mi scorre davanti, dormo o non dormo, non lo so poi vedo come mi viene.
H guida silenzioso ed enigmatico, una sigaretta dopo l’altra, chissà cosa sta pianificando; io nel sedile dietro invece sto pensando che ho fatto proprio una gran giocata a portarmi la pila luminosa da attaccare sulla fronte.
Attraversiamo città e villaggi, qualcuno di noi sta già dormendo con la testa all’indietro e la bocca aperta, H ogni tanto rompe il silenzio e prende in giro qualcuno, poi ritorna a scrutare la strada.
Il paesaggio che conosco inizia a cambiare ma è difficile spiegare in cosa: le città sembrano sempre le stesse, sono proprio le pietre e la sabbia che mutano impercettibilmente. Non so dirti perché, però a Tuwani sono in un modo e qua in un altro, mi devi credere sulla parola.
A un certo punto riconosco la valle in cui ci troviamo, Wadi-nar, valle del fuoco, se la vedi capisci pure il perché; sulla cima di una salita giungiamo al Container, il tristemente noto checkpoint che divide Nord e Sud della Palestina.
Siamo passati senza essere controllati, tiro un sospiro di sollievo e il viaggio continua.
Ci stiamo avvicinando a Gerico, il nome mi affascina da morire perché è considerata la città abitata più antica del mondo, nonché quella con l’altitudine rispetto al livello del mare più bassa, infatti fa un caldo straziante. A destra ho il Mar morto e ora che inizia a rabbuiare si vedono in fila tutte le luci della Giordania, così splendenti che fanno sembrare il confine ancora più vicino di quanto già non sia. Ci allontaniamo dal centro abitato e poi H imbocca una strada sterrata che nessuno si spiega come faccia a riconoscere con sto buio, abbaglianti accesi iniziamo una lenta traversata nella polvere di questa landa desolata interrotta solo da mucchi di arbusti e cumuli di terra. Intorno buio pesto, più lontano le luci della civiltà a chilometri da me.
Ci inoltriamo ancora in questo nulla buio, arido e afoso, a passo d’uomo sul terreno pietroso, poi dietro una curva spunta in controluce la nostra destinazione.
Il casolare è grosso e spoglio ed emana un’aria di antichità, è fatto di una malta particolare impastata con la paglia, non ha porte e dentro è ricolmo di roba abbandonata e mezzo metro di terra sul pavimento; non ti nego che il tutto qua ha un’aria parecchio spettrale.
Arrivati fin qui sarei curioso di capire cosa ne sarà di noi fino a domani mattina, oltre a ciò nessuno sembra aver posto apertamente il problema ma io di una cosa sono sicuro e cioè che lì dentro non ci avrei dormito nemmeno se mi avessero implorato. Poco dopo H mi leva il dubbio e mi dice che dormiremo sul tetto, meglio penso, non fosse che per arrivarci bisogna salire su una scala precaria di legni inchiodati che deve avere probabilmente la mia età.
Facciamo a pezzi con una zappa un bancale e ci procuriamo la legna per il fuoco, nella terra c’è una graticola di ferro arrugginito, ci cuociamo sopra tre melanzane intere.
H ha la capacità di non porsi il problema di spiegarti cosa pensa di fare: siamo sei persone affamate e stanche in una landa di terra buia con poche luci, tre melanzane sul fuoco e qualche sedia mezza spaccata trovata in giro.
I miei timori, e l’isteria organizzativa che nemmeno credevo di avere fino a questo momento, si dissolvono piano piano. H imperturbabile continua a tastare la melanzana con un legnetto, nel frattempo quella inizia a spurgare l’acqua che cola nella brace, io lo guardo e penso che non abbiamo posate ne piatti. Poi dal nulla salta fuori una testa d’aglio che lui getta nella brace, continuo a non capire, e una vecchia pentola che resta vuota in disparte. Viene rinvenuto un tavolino e disponiamo le sedie intorno, H prende una melanzana, ribadisce di non avere posate e iniziamo a staccare la pelle delle melanzane che viene via quasi da sola, così anche la testa d’aglio abbrustolita (circa tre spicchi a testa). Mette il tutto nella pentola vuota e inizia a pestare con una bottiglia le melanzane e l’aglio fino a ricavarne una poltiglia cremosa, nel giro di poco saltano fuori anche pomodori e piatti di plastica oltre a del pane che abbrustoliamo sul fuoco. Quello che sto mangiando ha un sapore spaziale, intingo con le dita il pane nella crema insieme al pomodoro. Ho deciso che devo farmi ancora meno domande e farmi trascinare dalla corrente ancor di più.
H sta parlando con suo figlio A, l’amico e Al, so anche di cosa, sento il nome di Sarura e Youth of Sumud, gli sta spiegando quali sono i progetti che ha in mente, è molto serio; mi sento piccolo e di passaggio adesso, io che tra due mesi torno e loro che poco per volta si prendono le chiavi di quel posto, trovano un posto nella resistenza. Per un po’ mi sento parte di questa resistenza, di questa testarda e risoluta promessa di non arrendersi allo stato delle cose. Leggo nello sguardo di H che sta iniziando un graduale passaggio di consegne; A guarda il fuoco vorrei chiedergli se ha capito quanto suo padre sia fiero di lui.
Sto pensando che è proprio una bella cenetta, assaporo il pensiero di stendermi sul tetto a guardare le stelle ora che si è presentato anche un po’ di vento a smuovere quella calura.

Penso male.
H borbotta qualcosa di incomprensibile in arabo e tutti si attivano d’improvviso, io pure anche se non so il perché, poi realizzo: dobbiamo lavorare e svuotare e pulire casa di I. Sono circa le dieci e qualcosa e stiamo iniziando a ripulire la prima delle due stanze, è piena di bancali di legno e teli impolverati stanziati lì da anni che non voglio manco sapere cosa abita là sotto. Adesso lo scopro: alzo il primo telo e uno scorpione mi corre tra i piedi, non bello, viene ucciso da una pietra.
Inizia un frenetico lavoro di trasloco, dopo poco abbiamo accatastato tutto fuori, è buio e ci diamo il cambio con la torcia dei telefoni. Inizia il lavoro di vanga, posso dirlo? Inizia il lavoro di m...: vanghiamo la terra che c’è sul pavimento per radunarla nel mezzo, l’aria diventa satura di polvere e la sento tutta in bocca, inizio a sentire le gocce di sudore sulla schiena.
A è letteralmente una scavatrice umana, io a volte poso la vanga e riprendo fiato, sputo roba marrone.
Abbiamo finito, figata, usciamo fuori che è anche arrivato I con un amico.
Il padrone di casa sta parlando con H e si bevono un caffè, poi secondo una modalità che ormai ho imparato a conoscere, ci alziamo tutti e lo seguiamo in mezzo alle piante lungo il campo dietro casa. Non ho capito cosa stiamo cercando, poi li troviamo: lunghi tubi neri dell’acqua, ne trasciniamo uno lungo una ventina di metri fino ad un altro punto del campo, in mezzo al fogliame, e I lo attacca a una pompa. Te lo sto raccontando in soldoni, tutta sta trafila è costata molte sigarette, sudore e perplessità. Ora è circa mezzanotte, sono accasciato su una sedia di plastica, H mi fissa per un po’ con il suo tipico sguardo poi mi dice che dobbiamo svuotare anche l’altra stanza.
Nessuno osa replicare e ci rimettiamo al lavoro: via tutta la roba da dentro e iniziamo a togliere la terra ma ce n’è di più che nell’altra stanza, praticamente non vedo in faccia le persone. Credo che andrebbe buttata dell’acqua sul terreno così da evitare l’effetto cortina di fumo, ma evidentemente ci erano arrivati molto prima di me, ecco che infatti inseriamo il tubo in casa che inizia a buttare fuori un gran quantità di acqua, non sto manco a dirtelo ma nel giro di dieci minuti siamo con il fango alle caviglie. Inizio a vangare via il fango che mi schizza in faccia e sui vestiti, non ho manco roba di ricambio, è uno di quei lavori che non sembra avere una fine precisa, si potrebbe continuare così per ore.
E’ circa l’una e mezza e sono di nuovo accasciato sulla sedia mezza spaccata, l’unico valoroso che continua e rimestare il fango dentro quella casa buia è Al, scalzo con i pantaloni alle ginocchia e la mia torcia in fronte (penso che ho fatto proprio una bella giocata a prenderla).
E’ l’evidenza della nostra condizione a parlare, dopo un po’ iniziamo uno alla volta a metterci in salvo sul tetto per dormire.

Sveglia alle cinque e venti, è ancora buio ma l’aria inizia piano piano a illuminarsi.
Raduno le mie cose e scendo dal tetto, tra uno yalla e l’altro, anche A e il cugino J si svegliano, troviamo Al addormentato su un bancale nel giardino. Ripuliamo in fretta la zona e rimettiamo le nostre cose in macchina, partiamo subito perché probabilmente i pastori staranno già uscendo, nel frattempo spunta il sole. Ripercorriamo la strada dell’andata e ci fermiamo solo per comprare dei caffè e delle brioches che mangiamo in macchina, adesso con la luce riscopro il posto che avevo visto durante il mio primo viaggio qua.
E’ del tutto nuova invece la valle dove siamo arrivati in questo momento, le colline sono diverse da quelle a cui sono abituato, il paesaggio è lunare e molto più spoglio. Scendiamo dall’auto e ci dirigiamo verso due pastori che stanno pascolando più in là, H si allontana con la macchina.
I e S sono molto sorridenti, do la mano e mi presento, quel poco di arabo che spiccico deve farli ridere sotto i baffi; non molto lontano da dove ci troviamo erompe in quella desolazione il verde rigoglioso di alberi di mango e palme da dattero: è la coltivazione dell’avamposto di Omar farm nonché il motivo della nostra presenza qua. I coloni che vi abitano detestano i pastori come I e S e sguinzagliano sempre l’esercito per mandarli via, coraggiosi questi coloni.
Siamo arrivati da nemmeno un quarto d’ora e dalla strada spunta il furgone dell’esercito a gran velocità, inchioda davanti al gregge che si disperde, noi alziamo le camere e filmiamo tutto, per un po’ sembriamo guardarci l’un l’altro, poi il macchinone fa manovra e torna indietro, starà andando a prendere nuovi ordini dai coloni, probabilmente non si aspettava la presenza di noi internazionali. I pastori non sembrano assolutamente preoccupati, l’abitudine al male penso io.
Il sole sta iniziando a battere con più intensità ma la luce è magnifica, questo paesaggio è mozzafiato se lo si sa apprezzare.
Guardiamo verso l’avamposto, sta uscendo in strada e si avvicina, i pastori dicono che è di nuovo l’esercito. Prima di venire credevo che almeno le forze dell’ordine avessero una loro autonomia nell’amministrare l’ingiustizia, ma mi sbagliavo, esercito e comuni cittadini giocano tutti il loro ruolo in modo coordinato.
Nel frattempo H sta tornando con il furgone, è proprio sulla stessa strada da cui si sta avvicinando la macchina dei militari, conto il secondo che li separano uno alla volta, finché non accostano di fianco a lui. Non posso sentire cosa si stanno dicendo, sono troppo lontano, ci avviciniamo alla macchine con le camere accese mentre i pastori restano sulla collina; finalmente li guardo in faccia, tutti ragazzini, faccia pulita, avranno al massimo venticinque anni, quello che sembra il comandante sta alla guida e parla con Al.
Risento i discorsi a cui ormai qua siamo tutti abituati, quella ostinata negazione dell’evidenza, della realtà: “Questa è terra palestinese, i pastori stanno soltanto pascolando il gregge, lo vedi? Non fanno nulla di male”.
“Non è un mio problema, loro non possono starci devono andarsene, è un’area militare chiusa”.
Bugiardo, gli viene chiesto se ha il documento che lo dimostra e non ce l’ha.
Continua il botta e risposta tra chi sa di avere ragione ed è senza potere e chi sa di mentire e ha il potere per farlo: “Il pastore non può pascolare più là, non c’è erba per le pecore, è comunque stiamo parlando sempre di terra palestinese”. Si mettono a ridere: “fino a quanto deve pascolare?”.
“Alle nove inizierà a fare caldo, ma io non sono il pastore non so quanto abbia bisogna di stare”.
“Alle nove ve ne andate”.

Si allontanano con la jeep e tornano verso l’avamposto, mentre lo fanno si sporgono fuori dal finestrino verso la camera e urlano salutando con la mano: “Goodbye! Nice to meet you!”.
Che attori penso, mi prudono le mani dalla rabbia.

I e S preparano il tè accendendo un fuocherello per terra e ne versano per tutti, poi poco prima delle nove saltano in groppa ai muli e li guardo mentre si allontanano con il gregge.
Mi rassicurano che sarebbero andati via per quell’ora in ogni caso, anche senza che glielo imponesse l’esercito, il sole è cocente ormai e anche le pecore ne soffrono.
Mentre partiamo anche noi, mi interrogo su quello che è appena successo, se siamo stati davvero utili a questi pastori, forse hanno guadagnato qualche ora di pascolo in più ma la prossima che non ci saranno spettatori e camere a filmare ciò che accade, i militari come si comporteranno? Se soltanto uno di loro aprisse gli occhi e convincesse anche gli altri a fare lo stesso.
Sono sempre più convinto che l’ingiustizia di questo Stato sia un colossale meccanismo di vittime in guerra le une contro le altre: coloni, militari e ignari cittadini obbediscono al medesimo ordine, che è quello di offendere la loro stessa coscienza, di distorcere il senso della giustizia, di piegare la religione e la politica al solo fine di farli credere di essere liberi di scegliere questo modo di vivere, liberi di scegliere certi nemici e non altri.