Lui mi sorride e tutto mi sembra più semplice

Il panorama di fronte si estendeva immenso e maestoso. Un verde ipnotico a perdita d'occhio. 
Le colline, oltre la strada da lontano, sembravano enormi elefanti pronti a sollevarsi, a risvegliarsi, pronti alla resistenza quotidiana.
I stupendi paesaggi di Al-Ouja scatenano la mia fantasia, mentre da lontano facciamo vedetta a Mahmud e alle sue pecore.
Nei giorni precedenti ho imparato ad apprezzare l'entusiasmo di Marta per la Jordan Valley che quel giorno era palese. Bello vederla così. Mi appassiono anche io.

Una possibile presenza della Colomba ad Al-Ouja mi carica di speranza, mi fa capire il senso e la forza della resistenza nonviolenta, di quanto possa diventare pericolosa e inesorabile per l'occupazione. Villaggio dopo villaggio, casa dopo casa, terreno dopo terreno, inarrestabili ci spostiamo verso est.

Al di là di là di quei giganteschi monti, l'esercito israeliano si allenava a sparare i loro inutili proiettili, riempiendo l'eco di quel luogo di un suono innaturale e fuori contesto. Ciò nonostante, però, un senso di calma e di pace mi tranquillizzava.

Verso mezzogiorno andiamo incontro al secondo pastore: Ismail. Quell'uomo mi ispira simpatia sin da subito e il solo guardarlo mi mette di buon umore. Non capisco una parola di quello che dice ma mi sento comunque a mio agio. In uno scatto di coraggio, provo a spiccicare due parole in arabo ma vengo scambiato per un israeliano. Decido quindi di tacere per quel momento, più tardi forse ci avrei riprovato.
Tamara è la figlia maggiore di Ismail. Ha solo dieci anni e aiuta suo padre con il gregge. Il resto della famiglia lo aspetta a casa.

Mentre lo seguiamo d'un tratto ci giunge la notizia che in un villaggio, non molto lontano in linea d'aria, sta avvenendo una demolizione con lancio di fumogeni. Più avanti, scopriamo che una persona anziana si è ferita alla testa, dopo che il tetto gli è crollato addosso.
Seguiamo la demolizione da distante, ancora più inermi e impotenti a causa dell'eccessiva lontananza.
Ad un certo punto Marta mi chiama per fare da vedetta ad un bulldozer, fermo in quello che sembra una stazione di servizio. Subito non capisco, ma eseguo senza farmi troppe domande.
Scatto qualche foto e la mostro a Ismail che d'improvviso se ne va dicendoci di restare fermi dove siamo. Faccio solo in tempo a notare il suo volto che si incupisce all'istante.
Passato il pericolo lentamente ci dirigiamo verso casa sua.
Il villaggio in cui abita è bellissimo, non manca nulla ed è accogliente. Poche case costruite in lamiera sparse qua e là, marmocchi sorridenti che gironzolano scalzi sulla terra umida e il paesaggio spettacolare della Jordan Valley di fronte.

Ismail ci spiega davanti a un tè caldo che le case che vediamo sono perennemente sotto ordine di demolizione, casa sua invece no. Ha già vinto una causa alla Corte Israeliana che gli permette di stare tranquillo. Ma la tranquillità è un concetto relativo in Palestina. La paura rimane lo stesso visto che in passato quella stessa casa è stata demolita più volte. In quel momento ricollego alcuni pezzi del puzzle.
Quando Ismail mi ha chiesto di monitorare il bulldozer era perché in quella direzione c'era casa sua con i suoi bambini e sua moglie. C'era Il suo villaggio, c'era la sua vita e mi domando: quante persone sarebbero in grado di sorridere nonostante l'ansia di tornare da lavoro e vedersi distrutta la propria casa? Quante persone sarebbero in grado di accudire i propri figli e di non farli crescere nella paura nonostante vivano a pochi passi da un campo di addestramento militare? Quante persone sarebbero in grado di accoglierti e dare ospitalità nonostante tutto ciò?

Mi rendo conto di non saper dare una risposta a questi miei interrogativi, mi limito a scambiare uno sguardo con Ismail.
Lui mi sorride, io gli sorrido e tutto mi sembra più semplice.