Diario da Tuwani

 Palestina

29 dic 2007 h. 16.15

Due colline sassose e polverose, qualche sprazzo di verde, si guardano. Spuntano qua e là case in cemento, parallelepipedi grigi, pochi bianchi e uno rosa. I panni stesi sono le uniche macchie un po’ colorate, alcuni tessuti davvero sgargianti. L’aria è tersa, ma si riempie di polvere quando cammini. Tanti muretti di pietre grosse delimitano piccoli campi, i tentativi di coltivarli si scontrano con sassi e terreno quasi arido. Il silenzio è rurale: grida di bimbi che giocano, ragli di asini, cani che abbaiano (guarda caso di notte intensificano gli ululati) e macchine (poche) dall’aspetto scalcinato e il motore lamentoso. A fondo valle la strada R317, riservata agli israeliani: macchine lucide e potenti che sfrecciano.

Sullo sfondo la foresta artificiale di sempreverdi piantata a metà degli anni Ottanta dai coloni e i profili delle villette a schiera della colonia di Ma’on, così fuori posto in questo caos ordinato che è la Palestina.
Questo è At-Tuwani, piccolo villaggio di circa 150 abitanti situato nelle colline a sud di Hebron, in pieno territorio occupato, sotto il controllo civile e militare israeliano.
La violenza si dipana su diversi livelli. La più sottile e strisciante, quella che si insinua nelle piccole azioni che coinvolgono la tua quotidianità, è la più difficile da individuare e combattere, perché coinvolgendo la vita vissuta nei suoi piccoli gesti, senza sconvolgerla tuttavia platealmente, induce l’uomo a scendere al compromesso, a piegare la sua dignità di essere umano, a ridurre la sua libertà smussandola negli angoli, pur di mantenere un briciolo di serenità. La violenza diventa parte della routine quotidiana, un disvalore aggiunto con cui convivere: una mezzora in più di viaggio (e più carburante) su strade malmesse e tortuose per il divieto di percorre le comode strade israeliane, solo quattro ore di corrente al giorno per il proibito allacciamento alla luce, cambiare pascolo per il pericolo di attacchi dei coloni, dover ottenere un permesso speciale (per solo una persona della famiglia) per visitare la bambina ricoverata a Betlemme. E tu internazionale, approdato qui dopo aver sentito parlare a lungo delle morti spettacolari dei kamikaze, dei missili israeliani sparati su Gaza, ti ritrovi a pensare che sia inutile intervenire in queste piccole cose, o comunque ti sembra di non fare abbastanza per la “risoluzione del conflitto” se l’occupazione della tua giornata è di stare a guardare un c.p., o monitorare la scorta dei bambini a scuola, o accompagnare i pastori al pascolo. E invece è proprio qui che si attua la pressione di Israele sulla popolazione, attraverso un atteggiamento irrispettoso, di scherno, che va al di là del mantenimento dell’ordine e addirittura spesso viola le stesse leggi israeliane a cui sono sottoposti i soldati e/o i coloni. È la paura che tiene tutti inchiodati sulle loro posizioni, una paura inculcata quotidianamente, con notizie di piccoli e grandi atti di violenze. Una paura preventiva che produce una violenza preventiva. Perpetuando.
La presenza di un internazionale riesce a livellare il dialogo tra le due parti, a permettere anzi che il palestinese possa pensare di rivolgersi all`israeliano guardandolo negli occhi, senza sentire la propria dignita` schiacciata. A volte il mutamento e` nullo, a volte impercettibile, e la frustrazione e` tanta (per gli internazionali, si pensi quindi alle limitazioni quotidiane poste ai palestinesi), altre volte e` palese, ed e` frustrante lo stesso, perche` il tuo video o le tue foto o il tuo passaporto straniero valgono piu` di una persona che vive qui da sempre.
C.