Tutto è finito, si può riprendere fiato

Una chiamata e via alla corsa.
Tu corri e continua a farlo finché una voce non ti dice: “basta, siamo arrivati”.
È iniziata così la mia giornata, nel villaggio di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron.
Fuori fa tanto caldo, c’è un sole che spacca le pietre, quando all’improvviso squilla il teamphone ed io e A. siamo tenuti a correre verso Ar-Rakeez, un altro villaggio distante dal nostro circa venti minuti a piedi, per la presenza dell’esercito israeliano.
In realtà, faccio un po’ di fatica ad arrivare, centrando piede dopo piede il pezzo di terra giusto per non cadere ma, soprattutto, avvertendo per tutto il tempo un dolore al fianco lancinante.
Eppure, non demordo e corro, devo correre: vedo A. più avanti di me, io continuo ad avere difficoltà ma gli urlo: “tu corri, io ti sto dietro ma arrivo”.
E così è stato.

Giunti a destinazione, sembra che la situazione sia stabile - “mish muskila” ci dice qualcuno, ovvero “nessun problema”.
Il respiro è affannoso, la testa inizia a girarmi e, all’improvviso, mi si annebbia anche la vista.
Sono stesa a terra e A. mi rassicura dicendomi: “riprenditi, tranquilla. È tutto ok. Ora puoi prendere fiato”.
Ma sono quei minuti, quelli in cui vorresti esserci ma nonostante tutto è il tuo corpo a fermarti e a dirti di “prenderti del tempo”.
Per fortuna è bastato poco, giusto il tempo di guardare un attimo il cielo, vedere le nuvole muoversi, ed ecco un’altra chiamata, un’altra corsa.
Riprendo a correre, questa volta più veloce di prima, sento di potercela fare, di essere ancora una volta sul pezzo.
Ordini di demolizione in corso: è la terza casa della mattina a cui danno l’avviso di abbattimento.
Ne seguirà una quarta.
Con nonchalance le forze israeliane vengono ad appendere un foglio bianco, scritto in ebraico, sul muro di queste abitazioni e noi arriviamo giusto in tempo per fotografarlo e riprendere qualsiasi loro altro movimento.
Vanno poi via, fieri del loro operato, indifferenti dei volti di quelle persone; persone consapevoli che prima o poi sarebbe giunto tale momento, ma che hanno preferito continuare a lavorare, giorno dopo giorno, sotto al sole e talvolta anche pioggia, pur di costruire la loro unica casa.
Persone persistenti, coraggiose, speranzose che quella demolizione tardasse ad arrivare.
Loro lo sapevano o, meglio, se lo aspettavano, ed è successo.
Taal no.
Taal questa mattina era partito da Be’er Sheva per tornare a Yatta col suo camion carico di materiale da costruzione e sulla strada, giunto ad At-Tuwani, ha beccato quelle stesse forze israeliane che avevano appena terminato la consegna degli ordini di demolizione.
Ha incontrato quell’unico ostacolo che potesse fermarlo, che potesse impedirgli di continuare liberamente il suo tragitto e arrivare alla sua meta senza alcun tipo di problema.
Un ostacolo, che si serve dell’amministrazione civile israeliana (DCO) e dell’esercito; un ostacolo di cui conosciamo bene il nome: si tratta dell’occupazione, maledetta occupazione che è costata cara, ancora una volta, ad un palestinese.
Taal, infatti, è stato costretto, in nostra presenza e davanti a tante altre persone, a fermare il mezzo, mostrare i documenti e il suo ID.
Subito dopo gli è stato chiesto di accostare il camion in quanto a breve sarebbe arrivato il carro-attrezzi a prelevarlo e portarlo via.
Lui fa per metterlo in moto ma non parte.
Gli viene urlato contro di “darsi una mossa”, in maniera piuttosto minacciosa, ed io sono lì che penso “un attimo dopo, se fosse passato un attimo dopo, forse non avrebbe incontrato nessuno, forse tutto ciò non sarebbe successo… che tempismo!”.
Passano due ore prima dell’avvenuta confisca dell’unico mezzo che Taal aveva a disposizione per muoversi e trasportare le sue cose.
Due ore in cui tutto il villaggio si è mobilitato per supportare un loro fratello e dare voce alla resistenza nonviolenta: chi di corsa arriva dalla collina opposta gridando e parlando ad alta voce, chi si siede e aspetta silenziosamente, chi in piedi vicino a Taal…

La scuola è finita, è ora di tornare a casa, ma numerosi sono i bambini che rimangono appoggiati alla ringhiera e guardano quanto sta accadendo sotto i loro occhi; corrono da una parte all’altra, curiosi, schiamazzano, parlano sotto voce, qualcuno prova anche a gridare contro i soldati.
Sono bambini del resto, no?!
Non dovrebbero vivere tutto ciò, ma qui è così e anche loro subiscono l’occupazione.
La cosa più bella è che anche loro, come alcune donne recatesi sul posto, hanno giocato la loro parte, perché ognuno può fare la differenza.
Per esempio, furbamente, senza farsi vedere da nessuno, i bambini hanno provato a fermare la confisca facendo rotolare dall’alto dei grossi massi e impedendo così al carro-attrezzi di passare.
Mentre la DCO e l’esercito israeliano perdevano poi tempo a spostare i massi, i bambini hanno sorriso un po'.
Noi continuiamo a riprendere, io vado verso una coppia di soldati che si sposta più in là proprio sotto la ringhiera, dove c’è qualche bambino.
A., invece, rimane un po’ più distante, all’altezza del mezzo e dell’altro gruppo di gente.
Due fuochi.
Una confisca.
Prima di raggiungere di nuovo A. mi assicuro che non succeda nulla a quei bambini, quando all’improvviso un soldato si mette a urlare loro contro, a spaventarli con sguardo minaccioso.
Avrà avuto la mia età, così giovane e già così severo...
Che ti hanno fatto loro? - mi verrebbe da domandargli.
Ma resto ferma e zitta.
Continuo a riprendere, ma forse per la prima volta inizio a provare rabbia e al tempo stesso dispiacere per lui.
Qualche bambino si nasconde dietro di me, è piccolo e ha paura.
Per fortuna, solo pochi secondi.
I bambini tornano a schiamazzare come se niente fosse, a sorridere e a gridare.
Sorrido anche io e torno indietro da A.
 Vediamo il mezzo ad andare via.
Taal rimane qui.
“Tutto è finito, si può riprendere fiato” ma i palestinesi sono ancora lì sulla collina, tutto il villaggio di At-Tuwani è riunito a bere un tè e a ridere di ogni problema, perché si resiste stando uniti e la resistenza nonviolenta non finisce, non finirà mai.