Carpe Diem – Febbraio 2020

Ancora qualche giorno da vivermi qui, prima di rientrare in Italia, in quell’Italia che ora, a seguito di uno “SmartVirus” (come lo definisco io), sta impazzendo e al tempo stesso soffrendo.
Ho parlato di “vivere”, quando avrei potuto usare altri verbi come “trascorrere”, “spendere”, “rimanere”, perché qui, nelle colline a sud di Hebron e, in particolare, ad At-Tuwani si vive.
Non importa del tempo che passa, soprattutto in questa stagione in cui le giornate iniziano ad allungarsi e il tempo scorre più lentamente.
Si vive ogni secondo in maniera piena, viva, autentica, senza sprecarlo.
Si gusta la bellezza delle piccole cose, si abbraccia il dono dello stare insieme, si apprezza il valore della famiglia, degli amici, del prossimo.
Quasi, direi, si sta in pace, in spensieratezza, in libertà, in serenità.

Perché, strano a dirsi, ma son giorni in cui tutto tace e neppure l’occupazione sembra farsi sentire.
Ma, ahimè, l’occupazione continua e neanche uno “SmartVirus”, ovvero il “Coronavirus” (COVID-19), può farla tacere.
Ed oggi, che sono ancora una volta a fare vedetta a qualche pastore, mi faccio cullare dalla brezza del vento e ripenso ai miei giorni vissuti qui, provando a dare loro voce, a farne un inno, un inno alla vita.

Vita è per me alzarsi presto e dirigersi in vetta per assicurarsi da lontano che bambini di qualche villaggio vicino arrivino sani e salvi a scuola, trascorrano una bella giornata con i loro insegnanti e compagni di classe e portino a casa bei voti.
Vita è anche aspettare (a volte anche fin troppo tempo) che vengano due o tre soldati israeliani a scortare quegli stessi bambini, per permettergli di fare rientro a casa, senza che subiscano alcun attacco da parte di coloni.

Vita è per me stare in accompagnamento di un pastore, vederlo prendersi cura del suo gregge, dalla prima all’ultima pecorella.
E poi bere insieme un tè caldo, ascoltare qualche storia del suo passato, stare semplicemente in silenzio contemplando un paesaggio mozzafiato o vederlo pregare.
Vita è, al tempo stesso, proteggere quel gregge e quel pastore di fronte ad una minaccia di un colono o nel momento in cui una jeep dell’army lo intima ad allontanarsi dalla sua terra, perché non ha Diritto a stare lì, perché non può essere libero di circolare lì, perché “loro sono la legge, così è deciso e basta”.

Vita è per me immortalare con un click tutto quello che puoi, ogni volta che desideri, perché quel momento non torna più indietro: Carpe Diem… un sorriso, un bambino che insegue un tacchino o che fa a gara con un altro a spingere una ruota di macchina, un cucciolo di cane che scodinzola felice qua e là, una donna che trasporta un carico sulla testa come se niente fosse o che porta tra le sua mani del pane caldo, appena sfornato, un palestinese su un asinello che, a volte, cammina ore ed ore sotto al sole, oppure un parto di una capra, una casa che cresce giorno dopo giorno, un trattore che passa, un gruppo di ragazzi che cantano…
Vita è per noi avere sempre un passaporto in tasca, un telefono e soprattutto una fotocamera al collo o spesso tra le mani e video-riprendere, per documentare tutto ciò che ci circonda, soprattutto quando c’è qualcosa di “negativo” purtroppo, come una jeep che irrompe all’improvviso e non sai dove si fermerà o una macchina bianca dell’amministrazione civile israeliana (DCO) pronta per una demolizione o una confisca; perché è proprio grazie a quel piccolo ma così forte strumento che provi a rendere giustizia e donare dignità a qualcuno che se lo merita.

Vita è per me essere in una macchina (o qualsiasi mezzo che abbia almeno quattro ruote) e percorrere le strade più improbabili, fare su e giù dalle colline, evitando quanto più possibile sassi e pozzanghere, ascoltando musica araba e sentendo cantare il palestinese a squarciagola perché in quel momento non c’è cosa più bella.
Vita è correre per vedere quella stessa macchina fermata ad un checkpoint e che, da un momento all’altro, potrebbe non più circolare.
A quel punto, le voci che si sentono non sono più per la musica ma sono quelle di altri palestinesi che dall’alto del villaggio vedono e si aiutano a vicenda per fare in modo che altre macchine non vadano lì e vengano anch’esse fermate.

Vita è per me andare a fare visita alle famiglie, togliersi le scarpe prima di entrare in casa, imparare parole in arabo, farsi capire a gesti, gustare hummus, tabun e tè, non dire mai di no, lasciare sempre un po’ di bevanda nel bicchiere o qualcosa nel piatto per far capire di essere a posto, ma soprattutto essere se stessi, nel rispetto e nelle fratellanza reciproca.
Vita è essere consapevoli che non sai quando e se potrai toglierti di nuovo quelle scarpe e sederti di fronte a farti riscaldare dalla loro stufa, dai loro sorrisi, dalle loro parole, dai loro sguardi.

Vita qui per me è stato vedere ieri una famiglia molto numerosa, trascorrere del tempo stando tutti insieme, senza fare chissà cosa di particolare: ridere, scherzare, giocare col più piccolo, chiacchierare, guardare il resto del villaggio, bere tè… e qualcuno, come la jiddi, ovvero la nonna, pregare.
Perché nient’altro serve.
Perché sì, qui, nonostante l’occupazione, le restrizioni, la libertà violata, la dignità calpestata, la vita viene vissuta giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, senza mai sprecarla.
È questa immagine di vita che mi voglio portare tornando a casa, in quella casa dove ora bisogna tenersi a un metro di distanza, dove ora bisogna stare entro uno spazio di terra limitato, definito “zona rossa”, dal quale nessuno vi può entrare e nessuno vi può uscire; in quella casa dove hanno chiuso scuole e centri di svago, dove nessuno più cammina per strada o al più lo fa con una mascherina e un paio di guanti alle mani; in quella casa dove sembra tutto così assurdo ma vero.
È un’immagine che mi porto dietro e se da una parte i pensieri un po’ mi preoccupano per quello a cui andrò incontro, dall’altra so già un po’ cosa potrà significare.
Anzi, sono loro, i palestinesi, che me lo hanno insegnato: mi hanno insegnato ad “avere cura del tempo”, mi hanno fatto amare ancora di più “la bellezza delle piccole cose” e soprattutto “la grandezza dello stare insieme e prendersi cura l’un l’altro, anche nella diversità, anche con i propri limiti e debolezze, anche nella sofferenza, anche nella lotta, anche nella semplicità del quotidiano”.
In quella casa dove sto per tornare non c’è l’occupazione, ma c’è un virus che si sta diffondendo così velocemente, è così “smart”, che non sta dando tempo alla gente.
Non si era e non si è ancora forse del tutto pronti ad un certo tipo di vita, ci si lamenta, si ha paura, si scappa.
Ma bisogna accettare e adattarsi.
Qui, invece, il tempo non è mai “smart”, qualcuno forse vorrebbe fuggire eppure resta.
C’è un altro tipo di virus, anche questo forte e che continua a propagarsi, ma si resiste, si continua a vivere, e non si tratta di abitudine; si tratta di rispetto e di amore per la propria terra, per la propria famiglia, per tutto il villaggio e per sé stessi.
Si tratta di lasciare spazio alla speranza e alla fede.

Inno ai territori occupati.
Inno ad At-Tuwani.
Inno alla vita, al “Carpe Diem” e ad ogni volto palestinese incontrato, ad ogni uomo, donna, bambino che ho avuto l’onore di conoscere e con cui ho amato vivere e convivere in questi mesi.