Lettera alla (mia) Palestina – Marzo 2020

Mancano due giorni, a quando ti saluterò ancora una volta.
Ti ho incontrato per la prima volta un anno fa, ed è nata una di quelle storie d'amore che si vedono nei film: i tuoi campi, le tue colline piene di verde e i sorrisi della gente che mi hanno accolto qui, dove pensavo che avrei fatto un’esperienza di tre mesi, ma che è diventata Casa.
Eri strana, mia Palestina, soprattutto agli occhi di chi non ti aveva mai visto, e mai aveva compreso delle tue incoerenze, se non quelle lette nei libri.
Vidi il muro che ti avevano costruito attorno, con strisce di sabbia ai suoi lati per controllare che nessuno vi si avvicinasse, e filo spinato alla sua cima, e mi chiesi perché l'uomo avesse deciso di dividersi dai suoi simili, con quella barriera.

"Loro sono dentro una gabbia" mi disse A., e a quel tempo mi chiesi come poteva lui, palestinese, non comprendere di essere lui quello chiuso dentro al muro, e non viceversa.
Eri cruda, mia Palestina, per chi ha sempre vissuto nell'opulenza dell'occidente, e mai aveva dovuto aspettare una scorta militare per andare a scuola.
Proprio io, che avevo per anni trovato le scuse più impensabili per non svegliarmi dieci minuti prima dal mio letto caldo, nella mia casa di cemento, adesso mi trovavo ad aspettare ogni mattina, col sole o con la pioggia, questi piccoli eroi che percorrevano una strada pericolosa, per raggiungere la scuola.
"L'istruzione è un passo verso la libertà" ho sentito dire più volte, e questo mi ripetevo, mentre stringevo le mani di quei bambini e bambine, che ci raggiungevano in fondo alla strada.
Eri arrogante, mia Palestina, per chi ti ha conosciuto solo superficialmente.
Eri arrogante nel carattere dei tuoi abitanti, in quegli uomini e donne cresciuti sotto occupazione; in quei loro modi di fare tanto distanti dai nostri, senza inibizioni, maleducati a volte, menefreghisti e sfrontati.
"Loro vivono il qui ed ora" mi veniva detto da chi era qui da più tempo, con un mezzo sorriso, che io consideravo a volte sbeffeggio, ma che ora comprendo.
 
Non so quando mi sono innamorata di te, mia Palestina.
Potrei dire la prima volta che una famiglia mi ha invitato a casa a mangiare, seduti su quei pochi e vecchi materassi che aveva, tra un pezzo di pane ed una ciotola di olio, frutto del lavoro di una settimana a volte.
O forse quando ho camminato, corso, a volte sofferto tra le tue colline, tra soldati e coloni che attaccavano quelle persone che lentamente avevano un nome, avevano una storia ai miei occhi, e che venivano umiliati senza ritegno.
O forse nelle lunghe notti invernali, vicino ad una stufa, o quelle estive, sotto un cielo di stelle, a parlare di resistenza e di futuro, di vita quotidiana e di sogni, con quei giovani diventati fratelli e sorelle.
Non so quando sia successo, ma dicono che le migliori storie d'amore siano quelle nate così, piano piano, dove apprezzi i lati negativi e positivi del tutto.
 
È strano, mia Palestina, perché per la prima volta sono pronta a lasciarti.
Piangerò, eccome se lo farò, ma so che è il momento.
Eppure, con la tua arroganza, testardaggine e forza, mi hai insegnato che bisogna sempre lottare, sempre vedere al di là del bianco e del nero che a volte il mondo ci mette davanti, ed apprezzare tutto ciò che si ha.
Mi hai affamato, Palestina mia, di amore e lotta per la giustizia non solo di questa terra di ulivi e colline, ma di tutto il Mondo.
Ho bisogno di vedere altro, di portare tutto l'amore che mi hai insegnato anche altrove, prima che tutto vada a sfumare, dentro di me.
Non voglio dimenticarmi della tua forza e della tua passione, della tua gente, delle tue terre.
Voglio portare con me questo, migliorarmi, e poi tornare qui, nella tua rovente terra estiva, sotto il sole della Palestina, e portarti ciò che avrò imparato.
Mi hai dato tanto, mia Palestina, ed io voglio portarti qualcosa di mio adesso.
Ma devo crescere, devo vedere il resto del mondo, io che posso farlo, e portarti con me.
 
Ora capisco il sorriso beffardo di quei volontari che mi dicevano "loro vivono il qui ed ora", quando gli chiedevo di descrivermi i palestinesi.
Non era beffardo.
Era consapevolezza.
È qualcosa che adesso, dopo quasi un anno nella tua terra, anche io porto con me.
Come porto con me il sorriso della tua gente, la loro forza, le loro storie di resistenza e di passione, di amore per la loro terra.
A volte ancora mi fai arrabbiare, mia Palestina, mi fai soffrire, come i tuoi abitanti.
Eppure, credo che tutto questo amore valga soffrire un po', ogni tanto.
Per i palestinesi l'occupazione è il soldato che non ti permette di raggiungere un ospedale a causa di un checkpoint, l'essere arrestato per strada perché senza documenti, l'essere attaccato dai coloni perché stavi pascolando troppo vicino agli avamposti.
Per me l'occupazione è quell'aeroporto che potrebbe fermarmi una volta per tutte, che potrebbe non permettermi più di rivedere la tua gente, la tua terra.
 
Ma non voglio pensarci, mia Palestina, ora voglio continuare a sognarti e portarti con me, fino al nostro prossimo incontro.
Che sarà presto, che sarà dolce ed amaro come è sempre stato, con le sue contraddizioni e la forza di lottare, come la strada che mi ha riportato a te, ogni volta, e che porterò con me ovunque andrò, prima di rivederti.
 
A presto, mia Palestina.
Perché, alla fine, si torna sempre dove si è stati bene.