Tra le colline gialle

“La banalità del male” è stato il primo libro che ho letto una volta tornata.
Per anni era stato lì sulla libreria a guardarmi, al mio ritorno in Italia il suo momento è arrivato… a volte penso che fosse l’unico libro possibile dopo l’esperienza in Palestina.
Ripenso ad un episodio in Khelly, con un soldato: lui mi tendeva la mano per aiutarmi a scendere in strada dalle rocce, mentre il collega strattonava il pastore e gli metteva le fascette alle mani.
Quanto può essere subdolo un sistema - quanto possiamo essere subdoli noi nel seguirlo - se ti permette di riconoscere qualcuno come umano e qualcuno come inesistente?
Come poteva quel soldato insistere nell’aiutarmi senza vedere che proprio lì accanto c’era un uomo ammanettato e strattonato ingiustamente?
Io valevo una mano tesa in aiuto, il pastore non valeva nemmeno uno sguardo.

Mi sono chiesta spesso cosa vedesse quel ragazzo – quel soldato – nel pastore: era ancora capace di vederlo come un uomo?
Una volta tornata in Italia ho ripensato spesso a quell’episodio (che è poi finito ‘bene’, senza un arresto): mi ero come ossessionata al ricordo di quel pomeriggio in Khelly.
A volte avrei voluto il fermo immagine del video in cui il soldato insisteva per darmi la mano, poi ho capito che non ci avrei guadagnato nulla da quell’immagine, non avrei capito meglio guardando a fondo il suo sguardo e la sua mano tesa.
Quello ero lo sguardo di una persona qualunque che tende la mano ad un’altra persona qualunque che fa fatica a scendere da una roccia, il contesto però non era un contesto qualunque, l’apparente follia nasce proprio da questa capacità di separare le cose.
Dico apparente follia perché in realtà c’è una logica dietro questo separare.
Separando le cose in tante categorie poco a poco si può diventare individui perfettamente “capaci di vivere”, “capaci di relazionarsi”, ma incapaci di vedere le cose nel loro insieme.
Si separa tutto per mantenere un apparente controllo, per poter continuare a credere di essere persone perbene che fanno il loro dovere.
Il dovere diventa una categoria, non la discuti più, la applichi.
A volte penso che ho visto quanto è banale il male.
Banale come Eilan, un uomo che dà ordini per demolire la rete idrica e si nasconde dietro agli occhiali da sole, dietro ai fogli di una burocrazia che ottunde la mente e illude di non avere colpe.
Il male è banale come un uomo – che è anche soldato – che tende la mano a qualcuno e non vede il sopruso che sta perpetrando contro qualcun altro e nel tendere la mano lui è genuinamente gentile solo che non vede il baratro su cui è seduto, oppure lo vede ma preferisce ignorarlo.
Difficile ammettere di aver sbagliato tutto, di aver seguito ciecamente regole ingiuste.
È più semplice a volte proseguire per la strada decisa, rimettersi in discussione richiede un’estrema forza interiore che l’occupazione non vuole da nessuno, devi volerlo solo tu ed essere disposto a perdere molto.
Della demolizione della rete idrica ricordo molte cose e così diverse tra loro.
Vedo il convoglio che si muove e noi che lo seguiamo, vedo improvvisamente zampilli d’acqua tra quelle meravigliose colline gialle.
Filmo, faccio foto e penso che l’occupazione è un sistema per cui l’acqua è meglio buttarla per terra che darla da bere ad un palestinese, l’occupazione è un sistema in cui i palestinesi non sono persone, non esistono, sono alla pari di un ostacolo (come un sasso mentre si cammina) che va rimosso per proseguire verso il proprio obiettivo.
Solo che i palestinesi sono persone in carne ed ossa che hanno una storia, delle memorie, dei diritti.
Di quel giorno ricordo che c’era una fotografa con una bandana sulla testa, che le ricadeva lunga sulle spalle.
Non so per quale giornale o gruppo lavorasse, so che ho pensato che poi le avrebbe pubblicate le foto dell’acqua che zampilla.
“Sicuramente le pubblicherà con un bel titolone ad effetto” ho pensato con molta rabbia.
Mi sono immaginata che qualcuno avrebbe letto e si sarebbe compiaciuto di quella demolizione così meschina, chissà se però gli saranno state anche raccontate le storie dei palestinesi che vivono in quelle colline.
Io penso di no, penso sarebbe rischioso raccontare queste storie, meglio dire che la legge è stata fatta rispettare e schiaffare una bella foto di bulldozer e acqua che spruzza verso il cielo.
Raccontare una storia potrebbe far immedesimare in quelle famiglie e sai come succede di solito: ti immedesimi una volta, ti immedesimi due volte, finisce che metti in discussione una legge e magari un po’ alla volta l’intero sistema.
Di quel giorno però ricordo - insieme alla rabbia e alla tristezza - anche quelle meravigliose colline gialle.
Ce le ho davanti gli occhi adesso, giuro.
Ricordo i ragazzi e i signori più anziani seduti tra quei fiori, seduti sulla loro bellissima terra.
Lo so, è folle separare le immagini di uno stesso evento, la situazione restava una schifo.
Io però di quello schifo riesco a ricordare che in certi momenti, mentre guardavo i palestinesi, pensavo che erano bellissimi per la loro forza, mi ero promessa che non me li sarei dimenticati. Allora, ogni volta che ripenso a quel momento cerco di ricordarmi anche di queste altre immagini. Rivedo i sorrisi di Basil, Tareq, Eid e Ahmed dietro al pick-up mentre ci dirigevamo verso Jinba alla mattina: non sapevamo ancora cosa ci aspettava, la nuvola nera dell’occupazione aleggiava sopra le nostre teste e lo sentivamo, però riuscivamo a ridere di quel preciso istante di leggerezza, quegli istanti che rendevano tutti noi ragazzi e ragazze qualunque che ridono degli scossoni del pick-up e del rischio di cadere.
Un’altra immagine che conservo è quella sempre di loro seduti tra le colline gialle che brillavano al sole.
Poi, ripenso a Faddel che bloccava il bulldozer mettendogli davanti le pecore, a un certo punto ci ha guardati e ci ha sorriso con la sua pipa tra le mani.
Infine, ricordo i bambini che avevano messo le pietre sulla strada tra Ar-raqueez e Tuwani per impedire al convoglio di proseguire.
Li vedevamo da lontano i bambini, ma in un attimo la strada era piena di sassi non grossi ma sufficienti a dare disturbo.
A cosa servono queste immagini?
Io non lo so di preciso, ma ci sono anche queste immagini.
Credo che in fondo per me queste sono le immagini della resistenza che fa con quel che ha e anche di più, sono le immagini di persone che riescono a restare tali anche dopo una vita intera sotto l’occupazione, sono le immagini che mi danno speranza per loro e per tutti noi.
Ci sono tanti Eilan, ma ci sono anche dei Basil, dei Faddel in tutto il mondo che continuano nonostante gli Eilan.
Ci siamo noi, che dobbiamo ricordare (tutto) e raccontare.
Io non so darmi risposte alle ingiustizie che ho visto coi miei occhi e nemmeno su quelle di cui sono testimone indiretta da più di un anno.
Non ci sono risposte soddisfacenti.
A volte mi sembra di fare il giro tondo attorno ad un’unica gigantesca risposta, un’unica gigantesca ragione alle tante ingiustizie del mondo, forse mi illudo ci siano ragioni precise per poter credere in una via d’uscita sicura e rapida per il futuro, una via che prescinda da me, dalle mie possibilità e dalle mie piccolezze.
La verità, forse, è che non esiste una via di uscita rapida e sicura, ma devo essere onesta e dire che io continuo a restare fiduciosa, non tanto immaginando soluzioni rapide e facili, ma resto fiduciosa rispetto alla necessità di questo cammino: è necessario e utile prendere parte, interessarsi e raccontare, creare una rete attraverso cui non si sia più soli.
Sono più brava a dirlo che a farlo forse, penso spesso di non fare abbastanza, ma una cosa è certa: credo davvero in quello che ho scritto.
Credo nella forza della resistenza di cui sono stata testimone, credo nella forza delle tante resistenze nel mondo.
I momenti di sconforto ci sono, ma continuo a credere nella necessità e nel valore di questo cammino.
Potranno anche decidere di demolire una casa (purtroppo), ma non hanno potere su ciò in cui noi crediamo, quello dipende solo da noi e credo che questo un giorno li porterà ad avere sempre meno potere di demolire una casa.
E magari chissà, un giorno si faranno anche un esame di coscienza allo specchio.