Postmoderno israeliano, sveglia, pecore, jeep, latte caldo di capra

Diario dalla Palestina

1 febbraio 2008 ore 17.10 

In Israele spadroneggia il postmoderno. Le colline che circondano Gerusalemme sono sovrastate da blocchi di cemento o pietra disposti in modi orridi, pluricondomini dalle forme anti-estetiche, disposte come se un bambino si fosse divertito ad accatastare mega-lego secondo una sua logica segreta, assolutamente senza senso per il resto del mondo. Quando sono stati costruiti questi edifici? Chi ha approvato i progetti? Perché questi inguardabili cosi spuntano come funghi ovunque? Dove?

 

Le cittadelle si pongono strategicamente come elemento divisorio per i villaggi palestinesi. Impediscono le comunicazioni, ostacolano la via piu’ breve, allungano i tempi di movimento e moltiplicano i problemi nella quotidianità. Devono essere aggirate. Intorno ad un insediamento si costituisce una sorta di stato cuscinetto, terra di nessuno, in cui non si può transitare. E piu’ l’insediamento si espande, piu’ questa zona si estende inglobando illegalmente terra palestinese da pascolo, da coltura, o case di palestinesi indotti ad abbandonare il terreno per le ripetute violenze dei coloni, o per la pressione psicologica dovuta al senso di insicurezza e estraneità del proprio territorio.

Perché i coloni decidono di vivere negli insediamenti? È una vita dura, in uno stato di paura continua, di assedio permanente. Ma la casa e l’ambiente sono confortevoli (per non parlare del paesaggio ameno, dell’aria pura e del rural style), c’è acqua, luce, tutto fornito, le case costano meno, ci sono sovvenzioni e facilitazioni dallo stato e da associazioni. La classe medio-bassa è quindi incentivata a scegliere di vivere in una colonia. Con le vie di comunicazione israeliane, strade asfaltate in perfette condizioni, in mezzora da Ma’on puoi raggiungere Gerusalemme. Coi mezzi - e strade – palestinesi tre ore circa se tutto va bene.

L’altra tipologia di coloni è un pochino peggio: sono ultranazionalisti, guidati dalla fondamentale credenza che questa è terra d’Israele. L’imperativo è liberarla, con ogni mezzo, per costituire la grande Israele (raffigurata sulla moneta Agorot, un decimo di sheqel, che i palestinesi non accettano), mix tra la rimembranza biblica (e quindi presagio della venuta del Messiah) e il simbolo di potenza e riscatto del popolo ebraico umiliato. Questi coloni vivono in container, baracche, case tirate su in tutta fretta, che si estendono come un prolungamento nelle terre esterne all’insediamento. Dalla madrepatria l’outpost  (avamposto) prende le risorse, l’allacciamento idrico e elettrico e il  supporto morale per una vita in prima linea. Le azioni intimidatorie sono svariate: sradicare/spezzare ulivi nei campi palestinesi (p.) limitrofi, impedire ai p. di usare le terre da pascolo e coltura vicine all’outpost, rubare le pecore, avvelenare i pascoli, avvelenare pozzi e cisterne, organizzare azioni che vanno dall’intimidazione alla violenza fisica, mostrandosi con bastoni e volti mascherai, sparando in aria, chiamando ripetutamente i soldati per sfiancare la resistenza nonviolenta dei p.

 


Neve a Gerusalemme, per le strade scheletri di ombrelli rotti ovunque, un’epidemia spaventosa che ha falcidiato un’intera generazione di giovani riparapioggia. Perché questa moria? Perché la Palestina è made in Cina. Questo paese è invaso da prodotti usa e getta, da oggetti di qualità scadente e aspetto squallido, da vasellame di plasticaccia, da posate in alluminio pieghevole, da cibo dagli ingredienti chimici e molto probabilmente tossici, da vestiti in materiali sintetici (non biodegradabili, se non per l’autodistruzione dopo qualche lavaggio). Persino il telo in cui avvolgiamo il pane tradizionale che ci porta Kifah ogni mattina è made in China. È questo il paradosso, la continua contraddizione, una vita agreste e apparentemente bucolica invasa dalla grettezza del degrado materiale, i riti immutati nel senso ma costretti a mutare nella qualità del contenuto. E noi ci preoccupiamo per l’invasione del mercato cinese - sfruttatore dei lavoratori a dispregio dei diritti umani – nel nostro paese. Noi possiamo scegliere, abbiamo un margine, qui non c’è scelta, le merci sono solo queste. (Ci sono sempre i prodotti israeliani, dagli insediamenti. E comunque anche nei supermercati israeliani – con la sicurezza che ti controlla all’entrata la borsa – ci sono molti prodotti dell’est). Mi chiedo allora se e perché è in questi paesi martoriati dal conflitto la piazza principale in cui si fa strada lo smercio del prodotto pessimo, a prezzo irrisorio e dalle forme inguardabili (perché tanto si rompe subito? Perché non c’è sicurezza – né rispetto – per la propria vita, figuriamoci per gli oggetti?). Questa per me è una violenza, cosi’ come l’urbanistica. Non so se il mio sia un modo tutto occidentale e benestante di pensare, me l’estetica è importante, il bello è importante. Non so ancora come spiegare questo nebuloso concetto, ma credo che essere circondati da un paesaggio di distruzione, muraglie innalzate e cimiteri di oggetti abbandonati contribuisca alla tristezza. Questo porta indubbiamente a gioire di altre cose, quelle essenziali, l’incontro con una persona, il piccolo dono inaspettato, l’ingegno fantasioso con cui si rattoppa casa, la mente estremamente acuta dei bambini e la loro capacità di inventare un gioco da qualsiasi cosa. Fatti che da noi si perdono sommersi da tutta quella materialità prorompente che ci sembra cosi’ irrinunciabile per sopravvivere.

Ma sopra tutto qui regna un senso del trash, del kitch, che risolleva parecchio il morale. Alcuni particolari indimenticabili:

-tappeto sintetico al cento per cento a forma di animale scuoiato, con pelliccia maculata non riconducibile ad alcuna specie scoperta dalla scienza;

-gingilli dorati con forme imprecisate e pennacchi rossi pendenti, da appendere ballonzolanti allo specchietto della macchina;

-piume di struzzo o di altro volatile con cui tappezzare gli interni del veicolo e/o filini multicolori per i finestrini;

-stivali da donna improponibili, con tacchi a spillo paurosi, pelle strafinta, colori male assortiti e inserti di materiali sconosciuti. Le donne, non contente di comprarli, li indossano pure e riescono incredibilmente a camminare senza cadere rovinosamente per i vicoli del suq di Gerusalemme;

- souvenir religiosi che spaziano dall’inquietante al ridicolo. Per ora vince l’immagine di Gesu’ crocifisso che muta in Maria orante muovendo il foglio. E già cosi’ potrebbe risultare spassosa. L’apice si raggiunge trovando una particolare inclinazione del foglio, in cui appare Gesu’ crocefisso che fa l’occhiolino. Devo averla!

 


4 feb 2008 ore 22.10

La sveglia suona alle 6.20. Ancora cinque minuti. Qualcuno mi scuote appena. È l’ora. Il calore del saccoapelo si interrompe, è invaso dall’aria brinosa, diciamo pure fredda, del mattino. Cerco di preservarlo qualche attimo ancora, poi sguscio fuori, e in fretta, nella semioscurità della stanza, mi vesto a tentoni, tra i corpi ancora rannicchiati per terra. Fede mi ha fatto il the caldo, quel tesoro. Arranco per agguantare un binocolo e intanto trangugiare la bevanda bollente e mordere il pane con marmellata filante di more stra-dolci. Via, via, è tardi, as the solit. La luce è cosi’ bella in questa ora. Tra l’arancio e il rosa. Una indefinita polverina dorata che sbarluccica sulle colline. Il villaggio è già sveglio, dalle case provengono i rumori del mattino, i bambini che strillano, gli asini che ragliano, le pecore, i cagnacci e i polli, l’orchestra Tuwani al completo, ma come piu’ attutita a quast’ora. Il sole è ancora basso e i raggi colpiscono i colli, la terra, i sassi, tutto sembra dipinto. Lasciamo la strada sterrata e iniziamo a inerpicarci. Passiamo alcuni campi coltivati (piu’ sassi che terra) e uliveti. Saliscendi per due colline. E poi il pianoro che porta a Khoruba. Di fronte a noi il sole ci acceca, spunta tra gli alberi dell’outpost di Havat Ma’on. Il vento ci colpisce il viso, i corpi accaldati per la salita e la camminata a passo lesto. Ci fermiamo da un gruppo di pietrosi, sulla costa della collina, questa mattina il vento è potente e spezza l’aria. Solo i cespugli pulisci-scarponi resistono (meravigliosa scoperta di un giorno fangoso di nebbia fitta). Il cielo è terso, possiamo vedere montagne e montagne e montagne fino all’orizzonte: le ultime sono già Giordania, al di là del deserto. Alcune mattine l’aria rimbomba per le esercitazioni militari nella Closed Military Zone piu’ a sud, echi di bombe esplose e colpi di mitraglia che si prolungano per tutto il giorno.

Basta col paesaggio, fissiamo lo sguardo di fronte, due colline piu’ avanti, dai chicken barns, i capannoni di allevamento polli della colonia. Il punto di incontro tra la jeep dell’esercito e  bambini del villaggio di Tuba, appena dietro a Ma’on. I soldati devono scortare i bambini lungo la strada che passa tra l’insediamento e l’avamposto, ordine del parlamento israeliano dopo che i bambini e i volontari sono stati ripetutamente attaccati dai coloni.

Dal bosco segni di vita, anche nell’outpost i bimbi si svegliano e strillano, si devono preparare per la giornata. A volte dalla casa bianca sui confini degli alberi parte una macchina che porta a scuola il bambino. Col binocolo seguiamo i movimenti della famiglia (è inquietante, ci si sente intrusi), poi un riflesso di fari, è arrivata la jeep. Dopo poco piccole figurine si stagliano sulla cresta della collina, all’orizzonte, nere sullo sfondo del cielo arancio-dorato. I bambini aspettano all’ultima casa del villaggio e appena vedono la jeep ai chicken barns (diventati a volte nei miei messaggi children barns o chicken bar) si incamminano. Scrutiamo nel binocolo, aspettiamo che ricompaiano vicino alla macchina dei soldati. Cinque gazzelle zampettano in fondo alla valle. L’aria frizzino ci punge la pelle. Ci vuole un dolcino, magari un Ali Baba. Eccoli, ci saranno tutti? Il numero cambia ogni giorno. Mando il messaggio agli altri volontari al Gate, il cancello che si apre lungo la recinzione dell’insediamento, da cui usciranno i bambini tra un quarto d’ora.

Aspettiamo ancora qualche minuto, in silenzio, niente chiamate di sollecito alla caserma stamattina. Dopo poco sgambettiamo verso At-Tuwani, pregustando un altro the ben caldo e un’arancia al sole.

 

5 feb 2008 ore 22.00

Stamattina ho toccato il fondo mangiando il riso con cavolfiori e vermicelli avanzati da ieri sera per colazione. E me lo sono pure gustato. Ieri avevo varcato la soglia scaldando la pasta con Frank, un finto salame con lo 0,1 % di carne, alle otto di mattina. Devo desumere che la Palestina sconvolge le abitudini, non capisci se ti crea una nuova identità o fa emergere la vera te stessa (ipotesi alquanto inquietante). Qui mi lavo denti e viso tutti i giorni, mattina e sera, spazzo casa piu’ volte il di’, mangio zuppe con verdure semicrude e visibili in stile macrobiotico (ammetto di non poter reprimere del tutto un’espressione di leggero disappunto), parlo e capisco (…) l’inglese, mi sveglio presto e mi piace pure, creo uno pseudo ordine nei miei averi e in me stessa. Ho abbandonato l’ameba style, ma non rinnego le mie origini di pigrizia suprema. Certo sono immutate la mia voracità estrema per i dolci e la voglia di leggere fino a tardi. Ma mi incuriosisce perfino conoscere e parlare con le persone…quale personaggio da fumetto sto diventando?

 

8 feb ore 21.50

Come comportarsi nei confronti dei soldati? E dei coloni? È giusto parlare con loro? Ha senso? O è contraddittorio? Parlando con loro, sono ponte tra palestinesi e israeliani, tra le due parti del conflitto, o uso questo dialogo solo per me stessa, per sentirmi utile, o pacifista, o nonviolenta, o cool, perché mi sto confrontando col “nemico”, perché mi sto esponendo in una situazione potenzialmente pericolosa? Cosa significa essere nonviolenti? Come si deve agire da nonviolenti? Ci sono attimi in cui ti sembra tutto chiaro e altri in cui la tua presenza sembra assolutamente senza senso.

 

9 feb ore 17.35

Da qualche giorno mi sentivo triste e sconsolata, una sorta di depressione latente senza causa apparente. Poi oggi sono uscita coi pastori e ho capito. Da una settimana non avevo contatti con la gente, perseverando a causa del caso ad assumere il ruolo di vedetta sulla collina di khoruba. La mia tristezza era in parte causata dalla mancanza dell’umanità di questi pecorari, delle loro risate, dei loro sorrisoni spesso dovuti a facili prese in giro a cui sono soggetta per la mia incomprensione dell’arabo, o semplicemente perché sono io, con la faccia buffa la testa tra le nuvole e l’inciampo facile. Oggi, giusto per spassarsela un po’, mi hanno fatto salire su un asino, scena tra il pietoso e il ridicolo. Ahmed era piegato in due dalle risate, soprattutto quando i miei maledetti pantaloni di velluto si sono incagliati nella stupida sella senza staffe. Sedere di occidentale per aria, accorrete! Un delirio di movenze bizzare, come al solito. Per fortuna la mia giacca a vento al titanium spande un’aura di professionalità intorno a me.

Mi sono gustata anche il latte di capra appena munto, con una bella schiuma candida in superficie, un sapore dolce e tiepido e un pensiero ossessivo mentre lo sorseggiavo: l’immagine inquietante del mio intestino in probabile ribellione nell’immediato.

 

Ore 21

Chiamata d’urgenza per Susya. Passo veloce fino alla strada 317, dove ci aspetta il pulmino special di Jamal. All’incrocio sorpresa, c’è un checkpoint. Già da due giorni tutte le strade palestinesi sono chiuse, ostruite da sassi, cumuli di terra, pietre enormi. Lavoro efficiente dell’esercito israeliano per punire la popolazione per la bomba a Dimona. Si dice che siano stati ragazzi di Hebron.

Passiamo le due jeep di soldati, che quasi allegramente ci apostrofano con un goodevening, e saliamo sul pulmino sgangherato al di là della barriera di sassoni. Jamal, ometto con viso aguzzo e testa canuta, solita pelle abbronzata e incartapecorita col sorriso fisso, guida attraverso strade sterrate strette e piene di ostacoli pietrosi. Il passaggio si è trasformato al calar del sole in un’unica tenebra. Ogni tanto spunta una luce, è una casa. Stiamo percorrendo un dedalo di viuzze che poco si differenziano dal terreno accidentato delle colline intorno. L'eterno saliscendi che caratterizza gli spostamenti, il pulmino costretto a procedere con prudenza per evitare buche e rialzamenti del terreno. Quaranta minuti per evitare la strada asfaltata proibita e valicare una decina di colline attorno. Finalmente Susya, la tenda, il ragazzino si ricorda il mio nome. Quanto fanno bene queste piccole stupide cose.

Ci offrono the e niente altro per stasera... i nostri stomaci brontolanti vengono zittiti prontamente. Siamo qui perché i soldati sono apparsi due ore fa, ingiungendo agli uomini di presentare i documenti e con l’intenzione di arrestare Nasser perché collabora con delle associazioni pacifiste. Che frustrazione, i soldati se ne sono andati poco fa (grazie strada iperlunga e dissestata!!), per fortuna un attivista di Ta’ayush, intermediando coi superiori, ha bloccato l’arresto.

Tre uomini giocano a carte, al lume di una lampada a gas. Nell’angolo opposto dormono avvinghiati alcuni bimbi, sepolti sotto le coperte di piombo. Il ragazzino che si ricorda di me mi scruta un po’, Nasser mi propone un matrimonio col piccoletto. Che gentile, mi da il tempo di rifletterci durante la notte.

Si parla di politica, dell’Italia, di Berlusconi e Prodi, ahimè. Spiego che ci saranno presto le elezioni. Mish kwaysse (non bene), Joy traduce. Nasser dice che dall’Italia vengono delle buone persone qua. Ma come durante la scorsa volta che sono stata a Susya, mi ricorda che l’Italia ha colonizzato la Libia. Impressiona che usi la stessa parola con cui indicano gli israeliani degli insediamenti, mustaunteniin. È una parte della nostra storia nazionale che fatica a passare nelle scuole, che stranamente non rimane a lungo nelle nostre menti. Anche noi abbiamo colonizzato, occupato, ucciso. Ecco gli italiani bonaccioni, generosi, accoglienti, brava gente, pizza, mafia e mandolino. (A proposito di mafia, qualche settimana fa un soldatone israeliano di origine russa al sentire che eravamo italiane, ha esclamato semi-ammirato: “Ahhhhh, Godfather!”, cioè “Il padrino”, il film. Allucinante.)

Una donna della famiglia ci serve il the. Joy è al telefono, parla con qualcuno della giornata, di come sono arrivate tre jeep di soldati e una della polizia. Hanno presidiato i confini dell’outpost. Quindici armati a far mucchio a Khoruba dove Joy e Art stavano coi pastori della famiglia di Juma.

Altri tre soldati osservavano dalla collina sopra i pastori, me e Fede, distanti nella valle di M’shaha. E tutto questo solo perché i pastori come ogni giorno pascolavano le greggi nello stesso posto di sempre.

Io me ne sto in silenzio, sorseggiando il the, un po’ accigliata. Mi prude la lingua ma non posso comunicare, vorrei svegliarmi una mattina con l’arabo in testa e riuscire a parlare con queste donne, coi bambini, con tutti, accidenti.

Vado a sorrisoni e gesti. Trasferimento nella tenda della nanna. La ragazza dalla voce musicale già dormicchia, penetriamo sotto le coperte di piombo, un lumicino su un mobile e il vento che entra da una mega-apertura al nostro fianco. Sono le nove, sarà dura dormire.