Tutti la chiamavamo jiddi

Tutti la chiamavamo jiddi, nonna in arabo. Non era la nostra nonna, ma quella parola simboleggiava l'affetto che tutti avevamo per lei ed era diventato per noi quasi un nome proprio. Vivendo con i suoi nipoti a volte ci scambiava per loro, ma mai nei momenti importanti, quando era urgente agire ci chiamava ajaneb e noi sapevamo cosa dovevamo fare. La sua storia è stata importante per me: in un contesto in cui, come donna, è difficile parlare e muoversi liberamente (pur con i privilegi dell'essere straniera) lei è stata un modello. Con le sue azioni e le sue parole ha saputo influenzare gli uomini  della sua famiglia più di qualsiasi altro, mostrandomi che la forza non sempre è dove ce la aspettiamo. Hafez ci ha raccontato molte volte come sia stata lei a fargli capire che la non violenza sarebbe stata la lotta più efficace. Lei che non ha indietreggiato mai e che per prima ha intravisto un'altra strada. Sono famosi i video in cui viene trascinata via a forza dalla polizia, in cui minaccia i soldati con una ciabatta, in cui seduta sulla sua terra non si muove di un millimetro. Era già vecchia, ai nostri occhi lo è sempre stata.

È stata giovane prima del 1948, è nata prima dello Stato di Israele e ha vissuto da profuga prima di stabilirsi a Tuwani. Le sue storie, per noi raccontate in un arabo incomprensibile, raccontavano la vita prima dell'occupazione, le tradizioni più antiche e il legame profondo con la terra, testimone della Storia, da un piccolo angolo di Palestina.

Senza parlare ci ha mostrato quanto è importante la terra. Ha sempre coltivato il suo orto, che zappava da seduta, nelle sere fredde dormiva con gli agnellini appena nati per scaldarli, ha sempre partecipato a ogni semina e ogni raccolto e d'estate dormiva ogni sera sul tetto, sotto le stelle. Donna, contadina, vedova eppure da questa posizione di fragilità emanava un'autorità che la rendeva rispettata e seguita da tutti. Insieme alle altre anziane erano la forza segreta del villaggio, che hanno tramandato alle loro figlie il sumud.

Noi volontari siamo arrivati negli ultimi anni della sua lunga vita e per tutti è stata un simbolo della resistenza nonviolenta ma anche una presenza della vita quotidiana. Con lei abbiamo passato lunghe serate invernali intorno alla stufa e notti d'estate sul tetto, quando all'alba, ancora insonnoliti la trovavamo già sveglia e intenta in qualche lavoro. Circondata da nipoti di tutte le età dava un compito ad ognuno e tutti la sorreggevano, la accompagnavano, le parlavano. Il suo occhio attento ci seguiva in ogni movimento e i suoi rari sorrisi ci hanno ridato convinzione quando abbiamo dubitato. Oggi salutiamo un'icona della resistenza e la nostra jiddi.

M.