Un giorno a Sderot

 Erano giorni che assistevamo a ciò che stava accadendo a Gaza, ma stare a Gerusalemme o ad At-Tuwani (villaggio in cui viviamo ed operiamo, a sud di Hebron) era come stare in Italia: i mezzi di informazione non ne parlavano, non arrivavano notizie, si sapeva pochissimo… eppure Gerusalemme non è in un altro continente, è a meno di 50km! Volevamo avvicinarci, raccogliere informazioni più dettagliate ed incontrare le persone. Sapevamo, come tutti, che il motivo ufficiale per il quale il governo Olmert ha deciso di tenere sotto assedio Gaza uccidendo decine, ormai centinaia di persone (tra cui moltissimi bambini o ragazzini) era, ed è tutt'ora, il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza in territorio israeliano. Volevamo andare a vedere. L'attacco di massa, poi, era arrivato dopo la pubblicazione da parte di Haaretz (giornale quotidiano israeliano) di un sondaggio che riporta che il 65% dei cittadini israeliani è disponibile ad aprire un dialogo con Hamas. Quindi volevamo andare a sentire la gente per capire cosa stava accadendo.

Volevamo visitare le vittime, esprimere la nostra solidarietà, vedere i danni e dire che non ci stiamo e, come avevamo fatto ad Haifa, nel nord di Israele, nell'estate 2006, volevamo andare a "portare sostegno e solidarietà alla popolazione civile e condividere la sofferenza e la paura di chi vive sotto la minaccia dei razzi Katiusha, di chi corre al suono della sirena d'allarme per cercare un riparo e ne attende la fine pregando, tremando, con la paura nel volto…".
L'Operazione Colomba è così, è leggera e si sposta, segue il conflitto.
Perché forse l'unico modo per dire agli israeliani "state sbagliando" è soffrire anche accanto a loro.

Allora siamo partiti, destinazione Sderot, io (M.), V. e C..
La prima cosa che mi ha colpito è stata la solidarietà ricevuta dalle persone israeliane con le quali collaboriamo nell'area di At-Twani, volontari di associazioni quali Tàayush, Rabbini per i diritti Umani e Bet'Selem; tutti si sono mostrati molto interessati, ci hanno incoraggiato, ci hanno chiamato e richiamato offrendoci contatti e punti di appoggio anche per il giorno seguente.
La stessa cosa hanno fatto poi le persone che abbiamo contattato, offrendoci la loro disponibilità ad incontrarci oppure dandoci a loro volta ulteriori contatti e consigli.
L'unica perplessità che avevamo riguardava il fatto che ci recavamo in una cittadina di provincia senza sapere l'ebraico.

Diario del 4 marzo 2008
All'inizio del viaggio ci colpisce il gran numero di giovani soldati alle stazioni degli autobus, a vigilare o come passeggeri degli autobus stessi, abbiamo stimato che il 40% circa dei viaggiatori fossero militari.
L'autobus per Ashqelon è pieno di gente. Arrivati alla stazione centrale di questa città, e ancora di più poi a Sderot, ci accorgiamo di quanto sia importante conoscere l'ebraico, lontano dalle mete più turistiche l'inglese lo conoscono davvero in pochi. Qui, alla stazione, V. inizia un dialogo, con le sue tre settimane di corso Ulpan ed un poco di inglese, con una ragazza di vicino ad Ashqelon, ma di origine russa.
Ci racconta un po' di lei, in particolare della sua paura e incredulità rispetto al fatto che la sua città sia colpita dai missili, ci dice che vorrebbe trasferirsi a Gerusalemme per studiare. Facciamo un po' fatica ad intenderci sulle motivazioni che ci portano a Sderot ma riconosce che è importante capire bene la situazione, scrivere e farla conoscere.
Il viaggio continua e veniamo sempre più sorpresi dal paesaggio. Leggermente collinare e verdissimo, rigoglioso, con campi, frutteti e boschi. L'autobus che porta a Beersheva via Sderot è mezzo vuoto.
Scendiamo in  periferia, verso le 11.00 e le prime due persone che passano e alle quali chiediamo informazioni parlano solo ebraico o russo.
Ci incamminiamo verso il centro. La città è molto piccola, con case basse e giardini ricorda una delle nostre cittadine di mare.
Vedere un rifugio ogni 50m e pochissime persone in giro ci provoca delle sensazioni poco piacevoli, ma ci scherziamo su e andiamo avanti. Le fermate degli autobus sono rifugi in cemento armato, ci sono rifugi a fianco dei campi sportivi o nei giardinetti pubblici, dove cioè le persone si fermano un po' di tempo. Quasi tutti sono colorati e decorati, alcuni sembrano anche da bambini.
In centro la situazione cambia. Molta più gente e meno rifugi. Non si possono non notare giornalisti, o meglio fotografi, dappertutto. Vanno a spasso per la strada, sono appoggiati a furgoni con scritto TV e chiacchierano, o riempiono i pochi bar.
Le mie sensazioni cambiano, mi sento nel posto sbagliato. La cittadina mi sembra viva, normale e piena di fotografi che gironzolano aspettando che succeda qualcosa.
Una signora sulla sessantina, anche lei di origine russa, ci avvicina chiedendoci di poter fare una telefonata. Ci dice che questa mattina alle 6.00 è caduto un razzo vicino a casa sua mentre lei dormiva, poco lontano da dove ci troviamo noi in questo momento, e ci chiede se anche noi abbiamo paura.
Nel piccolo posto dove andiamo a mangiare i tavolini sono occupati solo da noi, fotografi, loro attrezzature e computer e da un gruppo di volontari tutti con la maglietta 'Friends for Israel'.
Ci intratteniamo con uno di loro e raccogliamo un po' di informazioni.
Non lontano da lì  entriamo nel "Trauma Centre". Ci accoglie Liad, un'assistente sociale che parla un po' inglese. Liad lascia il suo lavoro e ci dedica una mezz'ora abbondante. Il posto è piccolissimo, è uno stanzone a L che comprende sala d'attesa, ufficio e una parte dedicata al trattamento, con anche letti separati da tende e un angolo cottura. In quel momento sono presenti solo due donne ed una ragazza che lì lavorano.
Ci mostra i lavori di un grande rifugio che dovrebbe essere pronto in un mese e nel quale trasferiranno almeno tutti i letti. Liad è nata e cresciuta a Sderot, ma adesso si è trasferita in un kibbutz poco distante dove arrivano comunque i razzi ma la situazione è migliore rispetto alla città. Ha una bambina di 5 anni che è già in trattamento da uno psicologo e per la quale è molto preoccupata.
La gente di Sderot cerca in tutti i modi di condurre una vita normale in una situazione per niente normale. I disturbi che derivano dalla situazione di costante paura ed insicurezza che affliggono le persone, sopratutto quelle più sole, sono tanti. La gente subisce continui traumi, è depressa, non dorme durante la notte, non riesce a pensare al futuro e vive giorno per giorno, è costantemente preoccupata per i familiari, soprattutto chi ha figli vive in ansia per loro; i bambini non escono mai e restano sempre in casa come in isolamento. Molte madri, accompagnati i figli a scuola, vengono al centro, si sfogano e piangono per ore. La gente vive aspettando la prossima sirena d'allarme, dall'inizio della quale ha 20 secondi per trovare un rifugio, prima della caduta del primo razzo. Così anche 10 volte in un giorno.
Tra le cose che fanno al centro cercano di supportare il senso di comunità in modo tale che nessuno, in particolare gli anziani, resti solo.
Dal governo la gente si sente abbandonata perché la città è piccola e la zona poco popolata, quindi trascurata dalle autorità. È così da sempre, è una condizione che riguarda un po' tutto il sud di Israele e un po' tutti i governi. Ma adesso che i missili raggiungono anche Ashqelon, che è una grande città, Liad è sicura che il problema non potrà più essere ignorato. È una zona a forte immigrazione, soprattutto russa ed etiope. Molta gente vorrebbe andare via ma non riesce a vendere la casa.
Anche la solidarietà della società civile è sempre mancata, ma negli ultimi mesi le cose sono, da questo punto di vista, migliorate. Ci sono gruppi che vengono a portare la loro solidarietà e altri che vengono a consumare nei locali pubblici e a fare la spesa qui per aiutare l'economia della città in forte crisi. Liad non riesce a vedere una soluzione per questa situazione assurda di violenza, dice di aver pianto per i bambini di Gaza uccisi dai militari israeliani negli ultimi giorni e ripete spesso che non vede via d'uscita. Ma rimpiange il tempo in cui la gente di Gaza veniva a Sderot a lavorare e a studiare e lei da Sderot andava a Gaza a fare shopping, questo accadeva prima dell'anno 2000, adesso non possono neanche sognare una vita del genere.
Tra loro ed i vicini di Gaza adesso non c'è più nessun contatto. Identifica in Hamas tutta la responsabilità per quello che accade perché i suoi sostenitori tengono prigioniera la gente di Gaza in un clima di terrore.
Di noi parliamo pochissimo e le facciamo anche poche domande perché lei parla come un fiume in piena ma forse il fatto che non siamo israeliani e siamo comunque lì a portare la nostra solidarietà le fa ancora più piacere.
A poca distanza dal Trauma Centre andiamo a vedere la casa colpita dal razzo la mattina. La identifichiamo subito perché fuori da una palazzina ci sono decine di persone, molte delle quali hanno una maglietta del gruppo 'Lev Echad' (un unico cuore) - Community Crisis Aid (un gruppo che, scopriamo, sosteneva coloni dell'ex insediamento israeliano di Gush Katif, nella striscia di Gaza) e da uno striscione attaccato al balcone dell'ultimo piano. Dalla strada non si vedono danni, probabilmente sono sul tetto. C'è un gran via vai di gente, si sale in fila per le scale e fuori ci sono tavolini dove si raccolgono firme e si distribuiscono magliette, bandiere ecc... noi non saliamo, ci sentiamo un po' fuori luogo lì in mezzo e poi abbiamo anche paura di sembrare dei turisti bellici. Gli stessi fotografi anche qui. Non possiamo fare a meno di notare, ancora una volta, che i vicini della palazzina di fronte, alla finestra, tra loro parlano russo.
Per la strada vediamo passare diverse donne di origine etiope con bambini e giornalisti che intervistano i soccorritori di un ambulanza durante la loro pausa pranzo, altri intervistano i pompieri.
Abbiamo appuntamento con una persona che lavora al Sappir College, dove un ragazzo è stato ucciso da un razzo la settimana scorsa. Chiediamo ad una simpatica signora per la strada se  possiamo arrivarci un po' a piedi, lei si fa seria e ce lo sconsiglia fortemente perché non è lontano ma fuori dalla città non ci sono rifugi per cui è molto pericoloso camminare, bisogna andarci in auto così si arriva in fretta.
All'istituto incontriamo Zohar nel suo ufficio, ma ci propone subito di fare una passeggiata.  Per più di un'ora camminiamo per il college chiacchierando. È un signore sulla sessantina responsabile di alcuni settori dell'università. È cordiale e accogliente, orgoglioso del luogo dove lavora e che ha contribuito a creare; ce lo fa girare quasi tutto. Ci sono quasi 60.000 studenti al giorno (Sderot ha circa 24.000 abitanti) che vengono da tutta Israele, qualche anno fa anche molti da Gaza. Da lui otteniamo anche diverse informazioni in più sulla città.
Fino agli anni '90 contava circa 10.000 abitanti, ma dopo l'apertura della frontiera russa l'immigrazione ha raddoppiato la popolazione. Tutto poi cambia, nel 2001 il primo razzo e da allora in sette anni ne sono caduti circa 10.000. Anche lui dice che Sderot è ignorata dalla politica nazionale perché è una piccola città ed i suoi problemi riguardano poche persone.
Infatti proprio lui due giorni prima della nostra visita era stato invitato a Gerusalemme per parlare del problema, ma non aveva accettato rispondendo che "sono i politici a dover venire qui per capire come vive la gente".
Intanto insieme alle strutture del college ci mostra anche dove sono caduti i razzi negli ultimi anni.
Sa benissimo che la popolazione di Gaza non ha niente contro di loro in particolare, Sderot è solo la cittadina più vicina al confine.
Anche lui identifica in Hamas tutto il problema, infatti dice che esistono dei ponti tramite internet, radio (anche tramite la radio del college) e telefono tra Sderot e Gaza, ma i palestinesi non possono rendere pubblico il loro nome perché rischiano la vita. Come soluzione propone che i paesi europei finanzino l'economia di Gaza, così che la gente si renda indipendente da Hamas, anche lui non è d'accordo con la soluzione militare.
Comunque aggiunge che non è corretto chiedere alla gente di Sderot di trovare una soluzione, perché le persone, quando hanno paura, non ragionano, pensano istintivamente alla propria sopravvivenza, è normale e umano, sono altri che si dovrebbero avvicinare al problema e trovare delle vie.
Poi ci propone di fare un piccolo giro per la cittadina con la sua auto e ci porta in periferia, in cima ad una piccola collina dove ci mostra quanto è vicina Gaza, pochissimi chilometri tanto che si vede all'orizzonte. Tra i due luoghi sospeso in aria una specie di dirigibile bianco dell'esercito che avvista i razzi e lancia l'allarme.
In auto sintonizza la radio su un'emittente locale che trasmette anche l'allarme, in quel caso bisogna fermare il veicolo, uscire e sdraiarsi a terra aspettando che il pericolo cessi.
Ci accompagna poi in centro, dove tra l'altro ci stupiscono diverse targhe e scritte in italiano, ringraziamenti a donatori, e ci mostra un piccolo cinema nato come reazione alla situazione di tensione e come sforzo di condurre comunque una vita normale.
Questo cinema, ci spiega, funziona tutti i giorni ed i film non si interrompono mai neanche durante gli allarmi e l'arrivo dei razzi.
Verso le 18.30 torniamo a prendere il pullman  che ci riporterà indietro, ma comprendiamo di aver incontrato una realtà complessa che richiederebbe molto più tempo.
Diceva Don Oreste Benzi, grande animatore dell'Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, nell'Agosto 2006: "Inoltre sosteniamo le azioni di chi da dentro il conflitto, con coraggio e amore, costruisce in modo nonviolento la convivenza e la pace, azioni come quella di Itzik Shabbat, ragazzo di 28 anni, israeliano di Sderot, che recentemente ha deciso di rifiutare di prestare servizio nell'esercito israeliano diC.ndo che - solo questo tipo di opposizione mette fine alla pazzia che sta crescendo e frantuma la falsa percezione che tutti supportano questa inutile guerra basata su motivi camuffati-".

M.