Non c’è tempo!

Giovedì 28 settembre 2023.
Sono tornata frastornata da questo viaggio incredibile in Palestina, come quando si riemerge in superficie dopo un’immersione in mare e finalmente si torna a respirare a pieni polmoni. I pochi giorni del viaggio sono stati così pieni e intensi che mi è sembrato che le giornate durassero 48 ore e che la mia vita scorresse al doppio della velocità normale.
Ma del resto in Palestina – a dispetto della cultura che si perpetua generazione dopo generazione, al ritmo lento delle tradizioni – la vita quotidiana scorre velocissima: ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per calcare il suolo del proprio uliveto, o per abitare la propria casa, o per pregare nella moschea sotto casa. Non c’è tempo per stare a piangersi addosso: la vita è adesso, e ciascuno sa benissimo che per garantirsi il mantenimento dei propri Diritti – per quanto già molto compressi – dovrà fare la sua parte, che sia un ragazzino che va a scuola, o un anziano che vuole solo raccogliere le olive nel proprio giardino.
Ho avuto la fortuna di incontrare chi ha deciso di sfidare questa situazione e per questo corre come un atleta; qualcuno batte lo scorrere accelerato degli eventi in velocità, qualcun altro in resistenza, qualcuno in strategia, come un pugile intelligente che studia le mosse altrui per prevenire il colpo fatale sul ring.

Ghassan è un maratoneta, non si arrende al fiato corto, salta gli ostacoli a due a due, e nonostante le enormi difficoltà, arriva al traguardo più forte di prima. Ha fondato una cooperativa agricola di 13 donne e 2 uomini, ha subito perquisizioni nelle sue serre, sequestri di materiale, tentativi di confisca da parte dell’esercito israeliano; ha sopportato le incursioni dei coloni degli insediamenti di Yitzhar, Braha e Ma’Adunim (tra i più violenti in assoluto, hanno all’attivo decine di assalti armati alle comunità palestinesi e devastazioni del territorio tra incendi, avvelenamenti del terreno e sottrazione di risorse naturali), le loro minacce e le percosse, ma non si è arreso. Ha vinto il primato del primo arresto ai tempi del coronavirus, in una situazione paradossale che sembra uscita da un film di Woody Allen, per cui i militari, bardati con le tute bianche, l’hanno costretto ad auto-ammanettarsi da solo con le fascette per timore del contagio. Un corto circuito totale. L’occupazione israeliana in totale l’ha detenuto per 8 anni, di cui 4 in isolamento, al quale si è opposto con uno sciopero della fame per mesi, e poi della sete, finché non è stato scarcerato. E oggi, con grande ironia, risponde alla madre che gli chiede perché a 33 anni non sia ancora sposato, che ha ancora molto tempo, perché in realtà lui di anni ne ha solo 25: gli altri gli sono stati sottratti dall’occupazione. Come un vero maratoneta, mantiene il fiato regolare, le gambe allenate, e resiste alla fatica con grande costanza.
Invece Aissa lavora di strategia. La sedia a rotelle, su cui è stato costretto in uno scontro a fuoco con i militari israeliani nel 2001, non si nota nemmeno: la sua mente acuta si destreggia tra la narrazione della Storia e le scelte che ha preso, avanti e indietro come fanno i pugili quando saltellano da un piede all’altro. “Nel 2000 abbiamo optato per la via nonviolenta” - dice - “non c’era alternativa per evitare ogni tipo di rappresaglia. Ogni goccia di sangue è sprecata. Se vivo, posso continuare a diffondere questo pensiero; se muoio no”. Quando gli hanno sparato, ha capito che era necessario un supporto internazionale, qualcuno che potesse provare a fungere da deterrente alla violenza; da quell’intuizione sono nati gruppi di accompagnanti internazionali ancora oggi sul campo. Anche i pugili più agili hanno bisogno di una squadra di supporto, del resto. Ci confrontiamo sulla quotidianità e sul futuro possibile di quest’angolo di mondo, così ristretto geograficamente e così oppresso. Ha una visione politica lucidissima della realtà, che purtroppo non fa presagire nulla di buono.
Le comunità della zona di Bruqin, invece, sono veri velocisti: si cimentano ogni giorno nella corsa a ostacoli e nelle gare di velocità, per cercare di superare tutte le difficoltà che si frappongono tra loro e la possibilità di una quotidianità normale. Sono piccole realtà agricole, villaggi che vivono di pastorizia e piantagioni di ulivi, che campano del frutto della loro terra. Ma come possono farlo quando i terreni vengono avvelenati dai coloni, che reclamano la medesima terra? “Ci vogliono 15-20 anni per riutilizzare un terreno dopo un simile avvelenamento”, spiegano. Guardano verso l’orizzonte e lo vedono costellato di nuovi insediamenti: una grande area agricola si trasformerà a breve in una zona industriale israeliana su terreni palestinesi, anche grazie alla collaborazione di un’azienda tedesca che si occupa della movimentazione terra. Non si capisce come mai la terra, così desiderata dai coloni, poi perda evidentemente di valore ai loro occhi, tanto da essere avvelenata o sfruttata per ospitare industrie inquinanti. Il paesaggio è punteggiato di casette fuori contesto, sembrano le abitazioni di un quartiere centro-europeo di periferia, sorte come funghi sulle alture: si mangiano territorio, acqua, spazio, energia del pianeta, distruggendo la terra su cui si trovano, sottraendola ai legittimi proprietari.
Gli abitanti della zona, quando devono andare a raccogliere le loro olive, si devono allenare alla rapidità, per ridurre i tempi di permanenza sul terreno; infatti, le autorità israeliane impongono un coordinamento con i legittimi proprietari, che si possono recare sulla propria terra solo a determinati giorni e orari. Capita che il permesso venga rilasciato solo dopo il picco della raccolta, che vive di ovvi ritmi stagionali, facendo così di fatto perdere i raccolti. Oppure che non venga rilasciato affatto. O ancora, che venga rilasciato per un tempo ridottissimo e insufficiente, costringendo a coinvolgere nella raccolta anche anziani e bambini, e imponendo il divieto di utilizzo di mezzi agricoli. Allora, le famiglie dei proprietari terrieri palestinesi devono agire in velocità: lavorare velocemente, invitando chiunque possa lavorare ad aiutare. La decisione di vietare ai legittimi proprietari di vivere del raccolto delle proprie terre è evidentemente politica, parte di un piano di annessione di porzioni sempre maggiori di territorio.

C’è anche chi ha deciso di resistere all’occupazione con la fantasia. A Beit Ijza, dove vive la famiglia Gharib, la casa ha un unico accesso attraverso un cancello metallico, completamente circondata dall’insediamento di Givat Hahdashas. Nel lungo corridoio d’accesso in rete metallica c’è anche un cancelletto laterale, da cui accedono – ogni volta che lo desiderano – i militari israeliani. Una volta Yusef, il figlio della famiglia Gharib, un ragazzino di 12 anni, ha perso per errore il pallone dall’altra parte; in risposta, è stato detenuto per 4 ore in questura, e il pallone è stato confiscato. Nonostante il trattamento disumano, e la sensazione di soffocamento che trasmette vivere in una specie di gabbia, la famiglia Gharib continua a resistere all’occupazione con la fantasia sfrenata dei bambini, che nel cortile giocano ai (o forse sono?) “supereroi”. I Gharib fanno crescere l’uva sul pergolato davanti a casa, fanno giocare i bambini nel lungo corridoio esterno, non cedono alle provocazioni verbali della famiglia di coloni, che vive a un paio di metri dall’altra parte.
Aissa, un altro 12enne, a Tuba, nelle colline a sud di Hebron, è il responsabile del gruppo dei bambini che ogni giorno, per andare a scuola ad At-Tuwani, aspetta i volontari internazionali e una scorta militare israeliana, in modo da evitare il più possibile gli attacchi dei coloni degli insediamenti di Ma’on e Havat Ma’on. Ogni mattina, armato di smartphone, contatta i volontari all’andata e al ritorno, per comunicare gli spostamenti dei soldati israeliani, la presenza di un pericolo, eventuali emergenze sui 20 minuti di cammino da casa a scuola, e viceversa. Aissa è professionale, puntualissimo, costretto dalla realtà in cui vive ad assumersi responsabilità e un ruolo che altrove i suoi coetanei nemmeno si immaginano. Lo osservo incedere silenzioso mentre un colono con un gregge di pecore lo intralcia nel cammino: sfodera lo smartphone e lo riprende attimo dopo attimo, a sua volta ripreso in video dallo smartphone del colono. Una situazione assurda: un adulto con un bastone in mano che si sente minacciato da una scolaresca, in cui il bimbo più piccolo ha 6 anni e saltella per restare al passo dei più grandi.

S.