Mi sono anche stancata di dire: “dovresti venire qui per capire”

Oggi c’è una strana nebbia calda che avvolge il sole e il villaggio.

L’aria è ferma, non sembra muoversi niente, anche i colori sono tetri.
Questa è la mia fotografia di oggi e vorrei rimanesse questa.
Anche se l’aria è pesante, non lo è l’animo.
Per un giorno ho dormito, non ho corso, non ho scrutato l’orizzonte.
I pensieri di questi giorni gravitano sulle immagini e le fotografie che mi porto dentro e che cerco di raccontare.
Qualche giorno fa cercavo di tenere in equilibrio una tazza di tè sul copertone di una macchina, mentre con la telecamera inquadravo l’ennesima macchina di un colono che passava vicino alla casa dove avevo dormito. Troppo vicino.
Ero a Umm Dhorit.
Chiamarlo villaggio è dargli una dimensione lusinghiera, ma inaccurata.
Sono due case con i tetti in lamiera tenuti fermi da copertoni e pezzi di cemento, due tende, una struttura per alloggiare gli animali, e un orto rigogliosissimo.
Ci abita una famiglia palestinese e la descrizione poco attraente che ne ho dato – giardino a parte – è dovuta al fatto che le loro case sono state rase al suolo qualche mese fa da un bulldozer israeliano.
Questo è il motivo per cui ero lì.


Sono nella parte alta del giardino, davanti a me striscia una strada sterrata che è stata disegnata da poco tempo per connettere due colonie israeliane con relativi avamposti.
Una è sulla mia sinistra, Avigayil, l’altra è poco dietro di me, Mitzpe Yair.
Scavalcata la strada sterrata, sulla collina di fronte a dove mi trovo, c’è un ammasso di oggetti che sembrano abbandonati a caso.
Un autobus, una macchina, del fieno coperto da un telo bianco, delle taniche d’acqua, e lo scheletro di quella che ha tutta l’aria di diventare una casa.
Questo scheletro è il monito più evidente per l’occhio meno consapevole che quelli che stiamo vedendo non sono oggetti lasciati a caso.
Non c’è niente di casuale nella nascita di un avamposto. Quegli oggetti sono lì a prendere posto.
Prima dell’arrivo dei coloni, servono come segnale che tu da lì, come palestinese, non ci puoi più passare, quella terra non è più accessibile e presto sarà abitata da coloni.
Infatti, come da copione, eccoli che arrivano dalla colonia sulla mia sinistra sopra un quad - il cui rumore ho iniziato a odiare - portando assi di legno per continuare a lavorare su quello scheletro.
Ieri tre di loro sono arrivati sullo stesso quad, gli M16 che riposavano sulle loro ginocchia, seguiti da un drone che voleva fotografarci. Ci hanno girato intorno un paio di volte.
Dai volontari che erano sulla collina subito dopo la nostra, sapevamo che avevano appena attaccato due pastori palestinesi che pascolavano dove erano loro.
Ora erano venuti da noi. Fatti i loro giri se ne sono andati.
Il papà della famiglia è tornato a costruire la scala che stava facendo in giardino, io ho tirato un sospiro di sollievo, che è durato poco, perché due coloni sono arrivati a pascolare le pecore nella parte bassa del giardino.
Vorrei potervi restituire qualcosa che non siano solo immagini.
Se dovessi condensare la mia frustrazione in un singolo tema, sta tutto nella tensione tra l’immagine e il vivere in questa terra.
Dall’inizio della guerra a Gaza abbiamo assistito a un oceano di immagini che ci hanno travolto.
Il primo genocidio condiviso su Instagram e Tik Tok.
Da quando vengo ad At-Tuwani l’unico canale che sento di avere è l’immagine, sia essa coniugata in parola o fotografia.
Ma non è mai abbastanza. Le parole mi tradiscono e le immagini non sono all’altezza.
Mi sono anche stancata di dire: “dovresti venire qui per capire”, che so essere vero ma inaccessibile ai più.
Anche perché non vorrei che tutti dovessero vivere un’occupazione o un genocidio per capire che è sbagliato, e per capire tutte le sfumature del perché è sbagliato.
Non ci sono abbastanza immagini che vi posso raccontare per restituirvi la complessità e la bellezza di questo posto.
Mi trattengo anche dal raccontarle perché so che tra i confini della lingua, qualsiasi vocabolario io possa scegliere, le reazioni saranno un ventaglio che va dal “poverini” al “è terribile”, fino al “ma cosa ne pensano di Hamas”.
Sono d’accordo con il senso di ingiustizia, non sono d’accordo con il compatimento che striscia in questi commenti, né con l’inaccuratezza storico-politica dell’ossessione che l’occidente ha per Hamas.
Come faccio a condividere con voi cosa vuol dire assistere a tutte le ramificazioni, anche più subdole, del colonialismo, senza scadere in facili retoriche e senza fare una lezione di storia?
Forse così, ma devo tornare a raccontare un’immagine.
Dietro Umm Dhorit c’è un altro villaggio palestinese, molto vicino alla colonia di Mitzpe Yair.
Si chiama Simri.
I coloni hanno terrorizzato gli abitanti di Simri al punto che se ne sono dovuti andare, e ora in quelle case ci abitano i coloni.
Vorrebbero che la stessa cosa succedesse a Umm Dhorit e si stanno prodigando in tutti i modi perché succeda.
Io ho avuto un assaggio: ronde costanti, il quad di cui sopra, i droni, i pastori coloni che entrano nelle tue terre.
Altri volontari sono stati svegliati all’alba perché due coloni, vestiti da militari con le scarpe da ginnastica – dettaglio importante, è sempre utile accogliere il ridicolo quando si presenta – sono entrati nella proprietà palestinese a fare foto.
Qualche settimana fa sono entrati a bruciare la macchina della famiglia.
Ieri sono arrivati e si sono messi a sedere sui loro divani.
In questa tombola costante, ogni ora ti esce un numero intimidatorio diverso.
Nonostante questo, continui a lavorare la terra, ci sono le pecore da far pascolare e il taboon – pane tipico palestinese – non si cuoce da solo.
Umm Dhorit è solo un esempio, in questo momento particolarmente caldo, di come l’occupazione ti tira via terra, sonno, casa, salute, la possibilità di immaginare un futuro.
Eppure si avanza, giorno dopo giorno, caparbi e risoluti, al ritmo di “un giorno ci riprenderemo tutto”.
Mi ritrovo a non sapere come chiudere questa storia perché è tutto tranne che chiusa.
Vi posso descrivere delle immagini, ve le posso anche far vedere.
Vi posso condividere i video dei coloni che arrivano mascherati, dell’esercito che spara ai checkpoint, come se non ci fossero già migliaia di video e immagini che documentano con terribile chiarezza il genocidio che va avanti da 76 anni.
Ma le immagini e i video congelano un pezzettino di tempo, da soli non bastano a tessere tele di significato.
Sono arrivata nel 2016, come tanti volontari prima e dopo di me; ho visto bambini crescere, ho intessuto relazioni che continuano, sono cresciuta anche io grazie a questa terra.
Ogni volta che me ne vado sento che un pezzettino di me si stacca e rimane qui, non perché sento di appartenerci ma perché le relazioni che si creano, anche quelle più faticose, ti fanno vivere questa dimensione temporale dove l’occupazione non è staccata da te, non ti riguarda solo perché passavi di qui e non finisce quando te ne vai.
Condividi, anche se in modo diverso e minore, le ferite più o meno visibili che lascia l’occupazione e condividi anche le tappe della vita che continua: matrimoni, lauree, figli, case.
Questo non può essere racchiuso in un immagine.

M.