Vivere

Sul campo ti puoi ritrovare ad affrontare molte situazioni differenti, sotto mille punti di vista.

Dall’accompagnare dei pastori nelle loro terre per essere al loro fianco mentre resistono all’occupante, a documentare l’attacco ad un villaggio da parte di coloni armati, o un raid dell’esercito nella casa di una famiglia, all’accompagnare dei bambini nel viaggio che devono fare per arrivare a scuola.
In tutte queste situazioni sei presente attivamente e puoi dare il tuo contributo.
Ma c’è un momento in cui sei presente sul campo e, nonostante la tua presenza, l’unica cosa che puoi fare è assistere, come uno spettatore inerme che non può lasciare il suo posto.
Questo è quello che provi quando assisti alla demolizione della casa, e anche un po’ della vita, di un’intera famiglia.
Quando ho deciso di partecipare al progetto è stato perché non ce la facevo più a essere quello spettatore davanti al telefono o in una piazza a cercare di fare eco a tutte quelle voci spezzate, che da più di 75 anni urlano per denunciare i crimini dell’occupazione, contro il cieco occidente che si tappa le orecchie.
Quando ho deciso di scendere, era per ascoltare quelle persone ed essere al loro fianco nella loro lotta nonviolenta.
Ma quando assisti a una demolizione, tutte quelle convinzioni crollano e ti senti di troppo, senti più forte la tua condizione di spettatore delle atrocità che l’uomo è capace di compiere.


Devi catturare con la fotocamera quella sofferenza che non è possibile contenere.
Mentre fai video ai soldati che allontanano la comunità che si è riunita, e a un bulldozer che annienta un edificio, dietro di te ci sono le donne e i bambini che piangono, gli uomini che pregano e senti la rabbia, la disperazione e allo stesso tempo la forza di chi è pronto a ricostruire e a ripartire.
Non trovi un senso al tuo stare lì, ti senti come un turista del macabro che è lì a documentare la morte, e senti il distacco.
Sai che qualsiasi parola o gesto di conforto che tu possa offrire non cambierà nulla, e senti che la tua presenza è quasi un insulto.
Vedi giornalisti in cerca dello scatto perfetto, dove una donna è accucciata con l’hijab a coprirsi il volto per asciugarsi le lacrime, e nello sfondo il bulldozer che demolisce la sua casa, e lo percepisci come l’ennesima violenza nei confronti di chi in quel momento non ha bisogno anche di quella umiliazione.
La rabbia ti vorrebbe far oltrepassare quel cordone di soldati e cercare di fermare quell’orrore, ma non puoi, non te lo permetterebbero.
Cosa fare? Come sempre, anche in momenti come questi, sono i e le palestinesi che ti insegnano cosa fare, e lo fanno senza dire una parola.
Allora cerchi di contenere le lacrime, il dolore, la rabbia e respiri, prendi il tè che ti viene offerto e ti metti lì in silenzio, a guardare insieme a loro quell’enorme trapano che polverizza i massi di cemento e i pezzi cadere al suolo con un rumore sordo.
Non so come riuscire a descrivere quei momenti, non so dare una temporalità, non so restituire un’immagine, so solo che dentro di me si crea come un silenzio assordante mentre al di fuori è tutto un gran frastuono.
Quel silenzio viene rotto nel momento in cui il convoglio di demolizione, i soldati se ne vanno e si lasciano alle spalle il cumulo di macerie.
In quel momento vedi le persone avvicinarsi, andare a recuperare le cose che sono riuscite a salvare, e cercare tra i detriti quello che si può ancora usare per ricominciare a vivere.
Perché è questo quello che ti insegnano i palestinesi: la vita.
L’insegnamento più grande che mi porto dentro dopo aver conosciuto questo popolo è che ho imparato che cos’è la vita e cosa significa essere parte di una cosa più grande che, grazie a una forza immensa, resiste contro una potenza che vuole solo l’annientamento.
Molte e molti potrebbero pensare che quello che fanno i palestinesi è sopravvivere alla potenza occupante, ma già anche solo dopo qualche giorno in Palestina capisci che quello che hai sempre considerato vita può avere un significato più forte, e che forse sei tu quello che sopravvive.
Che forse è il tuo mondo frenetico e individualista quello che cerca di sopravvivere, perché ha perso il senso di cosa significhi essere una comunità, un popolo.
E allora capisci che, nel tempo trascorso in Palestina, sono stati più i palestinesi ad aiutare te, che il contrario.
Per questo sarò sempre grata a questa terra e alle persone che questa terra la vivono, e a loro va tutta la mia forza e il mio impegno nella lotta, perché senza averli conosciuti vivrei un amore amputato e confinato.
Sempre al fianco di chi lotta, viva la resistenza.

T.