Diario di un volontario da At Tuwani - Palestina

Nutrire la speranza – agosto 2008

-Sayyara, mish Gish!- Ci tranquillizza Somaja, senza voltarsi. Noi siamo già tutti scattati in piedi per prendere le telecamere e andare a controllare. Abbiamo appena sentito il rumore di un automezzo che si avvicina sulla strada di terra polverosa e pietre.

Le poche parole di dialetto arabo-palestinese che conosco mi bastano per capire quello che la nostra vicina di casa ci sta dicendo: "E' una macchina, non è l'esercito!". Somaja è a piedi nudi, il viso chiazzato di terra, e gioca nel nostro cortile, di fronte alla baracca dove abitiamo.

E' la più vivace e intraprendente delle sorelle, a volte quasi sfrontata. Somaja ha quattro anni. Eppure forse conosce già troppo bene molte cose della vita di Tuwani. Conosce la vita dura di pastori e contadini in una terra semi-desertica, coltivata lottando con i sassi. Conosce la paura delle incursioni dell'esercito israeliano, che non ha orario nè rispetto di persone e cose. Forse ha anche già visto l'umiliazione dei suoi genitori di fronte ai soldati. Sicuramente vede ogni giorno l'insediamento di coloni estremisti israeliani, a poche centinaia di metri da casa sua. I coloni, da quando si sono stabiliti là circa trent'anni prima, non hanno smesso di compiere soprusi e violenze in nome di un diritto divino su quella terra: hanno avvelenato la poca acqua delle cisterne (gettando animali morti), hanno avvelenato i campi, hanno rubato e ucciso animali, hanno aggredito le persone. Il peggio di cui ha sentito parlare Somaja probabilmente sono gli attacchi ai bambini poco più grandi di lei, dai 6 ai 14 anni, che per raggiungere la scuola dal vicino villaggio di Tuba sono costretti a passare a piedi vicino alla colonia. Attacchi organizzati, compiuti da gruppi di coloni incappucciati e armati di fionde, bastoni e catene contro non più di una quindicina di bambini. E meno male che la scuola c'è, perché su di essa grava un ordine di demolizione solo temporaneamente sospeso.

In questa condizione al limite, gli abitanti di Tuwani hanno scelto di reagire con la non-violenza. Prima di tutto per necessità, perché diversamente sarebbero letteralmente spazzati via, di fronte ai mitragliatori da guerra M16 che i coloni portano a tracolla e ad un potere militare dell'esercito senza confronto. E poi perché alcune organizzazioni glielo stanno permettendo, con il loro sostegno. In primo luogo Ta'ayush, un gruppo di pacifisti israeliani, e poi le associazioni Christian Peacemaker Teams, americana, e Operazione Colomba, della Papa Giovanni XXIII, i cui volontari, a rotazione, vivono permanentemente con la gente del villaggio.

Si prova a camminare con loro. Anch'io sono tornato, ancora una volta nel torrido agosto, in questa terra a un passo dal deserto del Neghev. A lottare per nutrire la speranza.

Tre giorni prima del mio arrivo c’è l'ennesima aggressione dei coloni ai bambini, che per fortuna riescono a scappare. Joel, invece, un volontario che li accompagna, viene raggiunto e picchiato a sangue, colpito ripetutamente alla testa con la telecamera che ha con sé per documentare eventuali soprusi. Finisce all'ospedale e rimedia lividi e un punto in fronte. Non è la prima volta che succede.

Tre giorni dopo è in programma una dimostrazione. Si vuole andare tutti a Tuba, bambini compresi, sulla strada che i bambini di Tuba fanno per venire a scuola. L'esercito è già dispiegato all'alba per impedirlo. Il primo tentativo di passare viene respinto. Al secondo tentativo passa una folla di 150 bambini euforici e urlanti, accompagnati da qualche adulto. Il successo costa l'arresto a una ventina di pacifisti israeliani, che saranno subito rilasciati, e a Kristin, dell'Operazione Colomba, che verrà psicologicamente maltrattata e minacciata fino a notte inoltrata, accusata di aggressione pur non avendo alzato un dito. Gli unici ad aggredire in tutta la giornata sono stati i soldati e nessuno ha reagito. Io sono con lei quando viene presa. E purtroppo la mia inesperienza e la mia paura mi lasciano impietrito e inerte. Rischio più tardi l'arresto, perché mi trattengo troppo vicino alla camionetta dentro cui è stata rinchiusa Kristin. Ma alla fine mi lasciano andare.

La sfida è nutrire la speranza. Ma la speranza la danno soprattutto loro, i palestinesi del villaggio, così poveri di diritti, di serenità, di sicurezza, di prospettive per il futuro. Eppure a volte sanno dare una testimonianza di coraggio e dignità per me sconosciuti, lottando e sopportando e ricominciando oltre il tollerabile. E' la condivisione con loro, l'essere accolti, il vedere che nonostante tutto sono ancora lì, che aiuta ad andare avanti. Il successo della dimostrazione coi bambini ha potuto mettere un po’ di luce e libertà negli occhi della gente di Tuwani e ci ha dato ragione dei rischi corsi e delle sofferenze sopportate. E' come essere stati il mezzo per aprire una valvola positiva di sfogo e di liberazione all'insopportabile frustrazione dell'oppressione.

Ma non solo i Poveri mi hanno nutrito. Mi ha accompagnato anche la Parola, letta a volte insieme, alla sera, lottando con la stanchezza e la mancanza di elettricità, quando il generatore del villaggio è ormai spento. In quel contesto ho sentito la Parola farsi carne, viva, da potersi toccare…

…Mi sono accorto che accompagnare i pastori al pascolo e rischiare le botte e l’umiliazione insieme a loro era una sorgente potente di comunione, era un po’ come mischiare i corpi, e mettersi visceralmente in comunicazione. Mi chiedeva ogni volta, anche se non succedeva niente, la scelta di essere disponibile ad offrire la mia incolumità. Gli accompagnamenti e la condivisione sono stati per me profondamente eucaristici, e il nutrimento che questo mi dava rendeva la giornata compiuta.

E comunque andasse alla sera, prima di addormentarmi sul tetto come tutti fanno d’estate a Tuwani, il cielo stellato mi allargava l’orizzonte…

C.