Così vicini, così lontani

Palestina - Diario da Gerusalemme

Venerdì pomeriggio non è il giorno migliore per stare a Gerusalemme, dalle 14 infatti inizia lo Shabbat, le strade si svuotano e la maggior parte dei negozi abbassa le saracinesche. Nonostante questo, decido di farmi una passeggiata in centro, Ben Yehuda Boulevard, di solito sempre piena di musica e vita, è quasi deserta, qualche passante incede con aria frettolosa, rari gruppetti di persone camminano lentamente parlottando a bassa voce.


Ormai cala la sera e sto per imboccare la strada di casa quando mi si avvicina un personaggio dall’aspetto a dir poco inquietante, a metà tra il conte Dracula e un’epopea vichinga. Un uomo alto e allampanato, avvolto in lungo e svolazzante cappotto nero, in testa il tondo cappello di pelo tipico degli ebrei ortodossi da cui sbucano due lunghi cernecchi di capelli rossicci, mi guarda con i suoi occhietti cerulei e miti.

Mi dice in ebraico qualcosa che non capisco, gli rispondo che sono italiana e conosco solo l’inglese.

“.... We sit ?” mi chiede allora in un inglese incerto, “Ah ok…” gli rispondo indicando la panchina al centro della strada. “No, non qui... ci vedono…”, e senza neppure voltarsi imbocca svelto uno degli oscuri vicoletti che si dipartono da Ben Yehuda.

“Ci vedono....Ma cosa??”, mi domando tra me e me mentre incredula seguo il suo cappotto svolazzante.

Arriviamo all’atrio buio di uno scalcinato edificio e lui inizia a salire i gradini sporchi e appiccicosi, “Vieni…” mi dice, io lo guardo e devo dire la sua nera figura nella penombra del sottoscala mi ricorda un po’ l’inizio di un film dell’orrore…

Faccio appello alla mia pur scarsa diffidenza nei confronti degli estranei. “Ma vivi qui…?” “No…” mi dice e si siede su uno scalino a metà della rampa tirando fuori una sigaretta. “Sai agli ortodossi non è permesso fumare di Shabbat…” e mi porge il pacchetto e l’accendino.

Nel suo stentato inglese M. mi racconta di essere nato e cresciuto in Germania, da due anni vive qui a Gerusalemme con la sua famiglia.

Ha ventisette anni, come me.

Dall’alto delle scale giungono dei passi, “Merda” dice e scatta in piedi gettando il mozzicone ancora a metà, lesti usciamo dall’edificio e raggiungiamo un appartato cortiletto interno dove nessuno ci vede, M. si accende un'altra sigaretta e me ne offre.

Io vorrei capire di più sulla sua vita, sulla sua , “Ma voi ortodossi….” chiedo

“Io non sono ortodosso, sono ateo…”

Rimango leggermente basita. “Ma...come..?”

Bè...io non credo in Dio, ma la mia famiglia è ortodossa….loro non sanno che sono ateo...mi ucciderebbero…” i suoi occhi miti evitano i miei e si perdono nell’oscurità di questo angolo che il fumoso lampione sopra di noi non riesce ad illuminare.

Di nuovo sentiamo avvicinarsi delle voci, con un sorriso nervoso M. fugge con la sigaretta a metà verso un altro vicolo cieco dove, nascosto da sguardi indiscreti, getta la cicca e ne accende un’altra.

Parliamo un altro po’, ma è tardi per lui è venuto il momento di andare, mi lascia il suo numero di telefono, lui non ha dove segnare il mio, di Shabbat agli ortodossi non è concesso tenere il cellulare. “Ok, ti mando un messaggio così anche tu hai il mio numero” gli dico, ”Si grazie…ma dopo lo Shabbat…”

M. fa per andarsene, poi si volta e mi abbraccia, nel silenzio posso sentire il suo cuore che svolazza come impazzito. “Sai, agli uomini ortodossi non è permesso abbracciare una donna…”

Non so perché, ma non ho difficoltà a crederlo…

Lo guardo allontanarsi e svanire nell’oscurità. Solo.

Le bande del suo cappotto nero svolazzano quasi a salutarmi un’ultima volta.

Riprendo Jaffa Road, diretta verso casa, ma una voce arresta i miei passi “Escuse me…”. Mi volto, è un ragazzo in jeans e giacchetto di pelle, dall'apparenza sembra arabo, in un inglese stentato mi chiede se voglio bere qualcosa con lui. I caffè sono tutti chiusi, in un 24 ore compriamo una birra e una coca.

Si chiama J, ha 27 anni, come me. Come M.

La sua famiglia è di Hebron, lui da alcuni anni vive a Gerusalemme dove lavora come inserviente in un ristorante ebraico. “Io non ho problemi con nessuno”, continua a ripetermi ”ebrei, palestinesi, inglesi, italiani, per me sono tutti uguali, perché allora gli ebrei mi odiano così tanto?”

Camminiamo, J. mi offre una sigaretta dopo l'altra mentre mi racconta di quanto sia difficile vivere in una società da cui, qualsiasi cosa tu faccia, sei considerato come una persona di serie B.

Ho l'impressione che abbia bevuto qualche birra di troppo questo pomeriggio; ad un tratto infatti si ferma slacciandosi i pantaloni “Sorry..” e si mette a fare pipì ai bordi del marciapiede.

Io mi giro dall'altra parte quasi divertita, in questo posto più nulla mi stupisce.

Proprio quel momento passa una famigliola di ebrei vestita a festa, padre con due bambini, probabilmente diretti alla sinagoga. Quasi lo sfiorano mentre lui è lì intento alla sua opera, rimango di ghiaccio nel vedere i loro occhi trapassarlo come fosse invisibile, quasi non esistesse. Avrei preferito osservare un segno di rimprovero da parte loro, un gesto di stizza alla vista di una persona che piscia in mezzo alla strada. Invece nulla, come se non ci fosse niente di strano nel fatto che un arabo si comporti in modo indecoroso in un luogo pubblico. Ci stupiamo forse noi nel vedere un cane fare i bisogni sulla strada?

Sono ormai arrivata nei pressi di casa, è tardi, J. si ferma qui e torna indietro tenendo le mani strette dentro le tasche.

La sera è fresca e silenziosa e io ho l'impressione di camminare dentro una realtà parallela, in uno di quei strani sogni, pieni di assurdità e contraddizioni, a cui invano cerchiamo di dare un senso logico una volta svegli...

Mi resta l'assurda dolcezza delle due persone incontrate oggi, le loro vite tanto diverse legate dalla stessa, immensa solitudine. Così vicini, così lontani.

Salgo le scale di casa tossendo per le troppe, davvero troppe, sigarette fumate.