Dicembre 2012

SITUAZIONE ATTUALE - CONDIVISIONE E LAVORO - VOLONTARI

L'inverno ci ha avvisato che era alle porte con qualche giornata fredda e piovosa. E con una tempesta già annunciata: il 4 dicembre le forze israeliane hanno demolito la Moschea di Mufaqarah.  Era solo  nell'ottobre scorso che erano terminati i lavori di ricostruzione dopo la prima demolizione di un anno fa, e all'alba del quarto giorno di dicembre è arrivato puntuale il convoglio della distruzione.

La tristezza e il dolore per questo ennesimo atto di oppressione, per la violazione del “diritto inalienabile alla libertà di culto” professato in tutte le dichiarazioni dei diritti umani, sono stati superati dal solito instancabile spirito di resistenza che anima i palestinesi delle Colline a Sud di Hebron. Si è iniziato a discutere immediatamente della ricostruzione e di come organizzarla.
Ed è degli ultimi giorni di questo dicembre la notizia che si è riusciti a far arrivare al villaggio i materiali per iniziare i lavori. L'arrivo di materiali su un cantiere sembrerebbe una cosa normale. Ma non qui. Anche questo è notizia. Anche questo è conquista di un agire  nonviolento.
Questo mese si sono registrati numerosi episodi problematici nella quotidianità di Tuwani e dei villaggi dell'area:

School patrol.
La scorta dell'esercito che accompagna i bambini di Tuba nel tragitto che li porta a scuola è arrivata spesso in ritardo, con due conseguenze. La prima: espone gli scolari ai rischi di un'attesa che si svolge a pochi metri dagli insediamenti e dunque con il pericolo di possibili attacchi dei coloni. La seconda  è che i bambini arrivano frequentemente tardi a scuola. Nei giorni più freddi diventa poi davvero difficile gestire la sosta dei bimbi all'uscita di scuola, che reclamano il desiderio di tornare presto a casa. Ripetuti sono gli episodi inoltre in cui  la scorta non ha completato il tragitto della “dangerouse road”, lasciando che i bambini continuassero da soli il percorso.  
L'episodio più grave si è verificato il giorno in cui la scorta non si è presentata costringendo i bambini, accompagnati dai volontari, ad un percorso alternativo comunque rischioso visto che in passato anche su questa strada si sono verificate aggressioni.
I volontari di Operazione Colomba hanno documentato ognuna di queste diverse circostanze. Nondimeno ci sono state situazioni in cui i soldati hanno diligentemente protetto i bambini dagli attacchi di alcuni ragazzi dell'avamposto che sono usciti a lanciare sassi e insulti.

Presenza delle forze israeliane e della Border Police a Tuwani.
Dalla metà di dicembre, con una certa frequenza, hanno fatto ingresso nel villaggio auto della Border Police e jeep dell'esercito. Hanno talvolta compiuto solo dei giri perlustrativi. Altre volte si sono fermati presso alcune abitazioni, facendo controlli e domande. La  presenza dei volontari a fianco ai palestinesi del villaggio, in questi frangenti, non è stata gradita, sopratutto dalla Border  Police che ha fermato due volte i volontari di Operazione Colomba. La Border Police è stata particolarmente presente e attiva nell'area in questo periodo. Ha effettuato check point all'ingresso del villaggio, ed è stato impedito quasi sempre ai volontari di avvicinarsi e documentare.
Una decina di camionette delle forze israeliane sono entrate di notte nella città di Yatta per una retata di palestinesi che sono stati arrestati. Se si pensa che Yatta, secondo gli accordi di Oslo, appartiene all'area A a controllo palestinese, e che pertanto le forze israeliane non potrebbero entrarvi, si ha la misura della dismissione totale degli impegni israeliani a mantenere gli accordi con l'Autorità Palestinese, e della proporzionale perdita da parte di quest'ultima del controllo del proprio territorio, anche quello delle “enclaves” dell'Area A.

Lavori e attività quotidiane.
Con l'inverno alle porte la gente di Tuwani e dei villaggi dell'area ha approfittato di ogni giornata di sole per i lavori della terra e per portare al pascolo le greggi. I volontari dunque hanno effettuato accompagnamenti pressoché tutti i giorni. E pressoché tutti i giorni sono stati documentati impedimenti da parte delle forze israeliane allo svolgimento del lavoro di pastori e contadini. E' davvero triste assistere come rituali semplici e antichi, vengano ostacolati, resi precari, nel loro quotidiano svolgersi, dalle forze di occupazione o dai coloni. E' davvero opprimente, quanto ridicolo, vedere i soldati di un paese che reclama il suo diritto alla difesa e alla sicurezza, cacciare pecore e pastori o impartire loro ordini entro quale perimetro pascolare, senza che si possa vedere un confine reale. Ed è però davvero emozionante constatare quanto i palestinesi ogni giorno manifestino il loro diritto a esistere qui. I volontari testimoniano della forza straordinaria delle azioni nonviolente che consistono nel continuare instancabilmente a condurre la propria vita, a fare ciò che c'è da fare. Una storia fatta di tante piccole storie. I pastori  con il loro diritto al pascolo, i coloni con la loro illegalità “difesa” dai soldati. Ci sono giorni in cui la resistenza nonviolenta dei pastori ha successo, altri in cui i soldati fanno intimidazioni, sequestrano per qualche ora il documento d'identità – preludio ad un possibile arresto – o li allontanano in malo modo. Ma ogni giorno, c'è gente che se ne va dai campi con lo stesso saluto ai soldati, o con lo stesso proposito: “domani sarò qui di nuovo e salirò più in alto”.
In questo mese si sono susseguite a ritmo costante le cosiddette “azioni” nonviolente. Ci si ritrova palestinesi, attivisti israeliani e internazionali, su una terra di proprietà palestinese sottratta da qualche colonia e si cerca di fare quel che la terra e la natura chiedono venga fatto. Questo è il tempo della semina: i campi vanno arati. A volte i palestinesi si organizzano con trattori e mezzi per i lavori. Altre volte portano solo se stessi e le loro famiglie: donne, bambini, anziani. Sul posto sopraggiungono jeep dell'esercito e della polizia. Il solo riuscire a stare qualche ora su quella terra senza che la giornata si concluda con qualche arresto o qualche assalto dei coloni significa che l'azione è andata bene.
Nelle ultime settimane le azioni si sono concentrate a Susyia. Sono dieci anni che le terre in questione non vengono coltivate. L'azione ha dunque una carica simbolica molto forte tanto per i palestinesi quanto per i coloni. Sul posto si è sempre trovato un ingente quantitativo di forze militari già dispiegato che impedisce ai palestinesi di oltrepassare quel confine immaginario tra una zolla di terra e l'altra.
Ogni volta i palestinesi, tra discussioni con i soldati e soste seduti a terra a ribadire il diritto a stare lì, vengono respinti. Nell'ultima azione di dicembre a Susyia sono sopraggiunti una ventina di coloni che hanno aggredito con violenza verbale e fisica il gruppo dell'azione tanto che i soldati hanno dovuto interporsi per evitare una escalation. L'esercito ha dichiarato la zona “Area militare chiusa”: i palestinesi e gli internazionali sono stati obbligati ad andarsene, i coloni invece sono restati. La legge non è uguale per tutti.

Firing zone.
Ha avuto luogo il lancio della campagna “This must be the place”per l'abolizione della firing zone 918, promossa insieme ad altre organizzazioni israeliane e internazionali che operano sul territorio  (sito della campagna e petizione e articoli in italiano).   
Parallelamente, proseguono i viaggi nella firing zone 918 in coordinamento con altri gruppi di internazionali al fine di assicurare il più possibile la copertura dei villaggi.  Il 16 dicembre, data in cui ci si aspettava una pronunciazione dell'Alta Corte di Giustizia israeliana in merito alla possibile evacuazione, si è ottenuto soltanto un rinvio dell'udienza al 16 gennaio 2013.
Ciò ha lasciato un'aria sospesa tra i villaggi del deserto, dove aleggiano forti timori alimentati da persistenti vessazioni da parte delle forze israeliane.
Girando per i villaggi, sono state raccolte testimonianze, in particolare tra  gli abitanti di Al Mirkez e Jinba, di intrusioni notturne dei soldati nelle tende e nelle grotte, accompagnate da controlli di documenti, intimidazioni e minacce a lasciare i villaggi. Uno di questi tanti episodi ci è stato raccontato da K. che  a Jinba ospita i  volontari a dormire nella sua accogliente grotta. Ciò che era accaduto la notte precedente era stato davvero difficile da sopportare, eppure ad ascoltare K., a guardarlo, non si vive la sensazione dell'oppressione ma la certezza della vita che vince sempre e comunque. I suoi occhi ridono sinceri quando va incontro ai volontari, trova gesti di accoglienza squisiti come i mandarini che ogni volta offre. Ha la capacità di far sentire il dono di attimi pieni di vita, proprio perché sono così normali, in una quotidianità niente affatto normale. Chi vive sotto occupazione ha una percezione così diversa dalla nostra di ciò che è normale e di ciò che non lo è.
Forse è in questa provvisorietà del quotidiano che si impara a far vincere la vita.