Fi geish

C'è un fatto, concreto e significativo, che si nota molto presto quando, giunti nella zona delle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania, ci si guarda intorno: quelle colline, e in generale tutte le alture, sono controllate dai coloni.
Nelle valli, in fondo alle valli, ai palestinesi è concesso stare (qualche volta).
Dall'alto si controlla, si esercita meglio il potere.
È uno degli aspetti del colonialismo agricolo, che si avvale di leggi lasciate in eredità dalla Gran Bretagna e affinate da Israele, oltre che del meticoloso lavoro quotidiano di coloni, esercito e polizia israeliani per espropriare le terre ai palestinesi.
Noi volontari e volontarie di Operazione Colomba siamo lì, al fianco delle vittime.
Il meccanismo è rodato: i coloni impediscono ai palestinesi di accedere ai propri appezzamenti, i campi diventano incolti e la terra, giudicata inutilizzata, viene dichiarata “State land”, terra d’Israele.
Di fatto, è un esproprio: se ci si trova entro i confini di una “State land” (che cambiano continuamente, assumendo forme così irregolari che viste su una mappa paiono test di Rorschach), si può essere arrestati.

"Fi geish", dico al pastore seduto accanto a me.
“C'è l'esercito”.
Lui mi guarda come se fossi un bambino che ha detto per la prima volta "mamma" indicando però una mucca. Mi sorride e risponde: "Problems".
Anche oggi gli tocca discutere, litigare, lottare con il mondo, solo per poter continuare a portare le sue pecore al pascolo nella terra in cui lo ha sempre fatto.
Nonostante questo, il suo sorriso mi dice che, anche oggi, non si arrenderà.
È il sumud, che significa resistenza, fermezza, perseveranza, resilienza. Secondo Samah Jabr, è "la base di una vita di resistenza, ancorata alla terra come un ulivo dalle radici profonde, che preserva l'identità, cerca l'autonomia e la capacità d'agire, salvaguarda la storia dei palestinesi e la loro cultura dall'annientamento".
Operazione Colomba è accanto ai palestinesi del Masafer Yatta in questa resistenza nonviolenta.
Non la conduce, la accompagna.
E lo fa da vent’anni, attenendosi alle strategie definite dei palestinesi dell’area.
Nel quotidiano la domanda che ci si pone è: “se succede qualcosa di grave, io a cosa potrò essere utile?”.
Nell’immediato capita che l’immensa mole di materiale audiovisivo che collezioniamo (ogni giorno) sia utile a scagionare un palestinese arrestato con accuse prive di fondamento.
Ma è nel lungo periodo che l’effetto della nostra presenza, e degli attivisti israeliani, si manifesta meglio.
Perché, nonostante tutto, i palestinesi del Masafer Yatta sono ancora lì, e qualcuno/a di loro, oggi ventenne attivista della resistenza, è nato/a e cresciuto/a lì, con le colombe… e ci vuole ancora lì, accanto a loro!
Questo penso sia tutto quello che abbiamo bisogno di sapere per continuare ad esserci.

T.