Anibal

Sei stato parte integrante della nostra quotidianità.
Quasi sempre la prima persona ad entrare nella nostra casa la mattina.
Quasi sempre l’ultima persona a lasciarla dopo le serate passate a giocare a domino.
E le tue innumerevoli visite durante il corso della giornata.
Ti vedevamo arrivare con il tuo passo incerto… quante volte ho pensato: “speriamo non cada”.
Quante volte ho cercato di convincerti ad utilizzare un bastone, ma niente, la tua testardaggine vinceva sempre.
Ed in effetti non  ti ho mai visto inciampare o cadere.
Conoscevi a memoria ogni singolo sassolino del cammino tra la tua e la nostra casa.
O meglio, tra le tue case.
Perché questa casa, casa di approdo di tantissimi volontari, visitanti, amici, è stata anche casa tua.
Eri l’unica persona ad avere una copia delle chiavi.

Anche l’ultimo giorno passato in Comunità, quando ho deciso che forse era meglio scendere in ospedale, hai avuto, nonostante la debolezza del tuo corpo, la forza di metterle nel tuo borsello.
Perché per te è sempre stato un grande orgoglio la fiducia che sin dall’inizio, prima Monica e via via tutti noi, ti abbiamo sempre dato.
Quando quel lunedì, mentre rovistavo con maniera discreta tra il tuo borsello, nel quale custodivi i ricordi più intimi della tua vita, alla ricerca di un numero di telefono per contattare tuo figlio, le ho viste, stupidamente ho pensato di chiederti se me le potevo prendere.
Nonostante ti avessi spiegato che se andavamo via potevano servire a qualcun altro, ti sei subito arrabbiato con me.
Poi con quel tuo mezzo sorriso mi hai detto “bueno bueno llevansela pero cuando vuelvo son mias”.
Conoscevi tutti i nostri spostamenti.
Era cosa certa, di ritorno dopo giorni di accompagnamento nei villaggi, trovarti seduto sotto il mandorlo a chiederci: “como le fue?”.
Entravi in casa, ti sedevi a osservare noi disfare gli zaini.
Sorridevi e ci prendevi in giro quando arrivavamo sporchi di fango o con gli stivali pieni d’acqua.
Ma per te l’importante era sapere che era andato tutto bene.
Abbiamo segnato nel calendario tutte le tue prossime visite ed esami che dovevi fare.
Da molti anni eri ammalato, ma se c’è una cosa che posso scrivere con davvero tanto orgoglio ora, è che per te abbiamo fatto davvero di tutto.
Perché ti sentivamo davvero parte della nostra famiglia e perché era una lotta per la giustizia che tu non avresti mai potuto portare avanti, ma noi sì.
Non siamo qui in Colombia per assistere i malati.
Siamo qui per accompagnare persone che hanno deciso di lottare per un mondo giusto, in tutte le sue sfumature.
E tu eri una di loro.
Quante ore spese in attesa di una maledetta autorizzazione di un esame.
Quante chiamate per ottenere una maledetta visita.
Quante energie spese nel chiedere giustizia, fino all’ultimo, quando ti hanno fatto cadere dal letto dell’ospedale e io non ho potuto trattenere la mia rabbia.
Con te abbiamo purtroppo sperimentato il marcio di questo sistema sanitario.
Ma grazie a te, a ciò che sei stato per noi, tanti volontari hanno sperimentato cosa significa lottare per un mondo giusto.
Cosa significa accompagnare in questa lotta per un mondo giusto.
Cosa significa accogliere chi non ha nessuno perché nella vita ha perso tutti.
Tu Anibal ci hai messo alla prova.
Hai messo alla prova i nostri limiti.
Hai messo alla prova la nostra pazienza.
Hai messo alla prova quanto sia difficile, a volte, comprendere la persona che abbiamo di fronte e i suoi aspetti più duri.
Quanto sia difficile amare sempre e in maniera incondizionata.
Hai raccontato a pochissime persone la tua storia.
Ho conservato quei tuoi racconti sempre con discrezione.
Anche in questi ultimi giorni quando all’ospedale tutti mi chiedevano “cos’ero io per te” e perché non avevi una famiglia… non ho mai raccontato le grandi tragedie della tua vita: “la familia mia la mataron toda. Casi toda a plomo y tiro” raccontavi.
Ho sempre cercato una scusa perché so che ti avrei ferito.
Fino a che un giorno, stanca della solita domanda, sono arrivata a rispondere che la tua famiglia era speciale e grande.
Fatta anche di persone straniere.
Non so se questa parte l’hai sentita, io son convinta di sì… mentre l’infermiera pompava ossigeno nei tuoi polmoni e tu eri appena stato sedato.  
Ieri siamo andate a prendere una pietra prima del tuo funerale.
Una pietra dura come il tuo carattere.
L’abbiamo messa sopra la terra a cui sei ritornato dopo averla pitturata e averci scritto il tuo nome.
Mi è venuto spontaneo chiedere alle donne, che avevo li attorno, il favore di prendere dei fiori per circondare quella pietra.
E quei fiori per me rappresentano la tua tenerezza e bellezza nascosta.
Chi ha voluto, ha potuto scoprire la tenerezza del tuo cuore, cuore pesante e stanco.
Cuore sofferente.
Ma cuore tenero, che a modo suo ha saputo amare e amare davvero tanto.
E di questo te ne sarò per sempre infinitamente grata.
La tristezza che mi e ci avvolge è tanta.
Ma so che tu non mi vorresti vedere così.
Mancherai tanto.
So che avevi paura della morte e che ci potessimo dimenticare di te.
Tranquillo vecchio mio, riposa finalmente in pace.
Continuerai a vivere in questa casa e nel cuore delle persone che hai amato così tanto.

Alzo lo sguardo e ti vedo seduto li fuori sotto il mandorlo.
Dovrei gridarti: “Entra Anìbal que llueve”.
Ma in questa casa sei già entrato per sempre.
Proteggici come hai continuato a fare fino ai tuoi ultimi giorni.
Ti voglio bene.

Silvia