La distanza delle parole

Palestina

Diceva che erano gli altri a volerla etichettare come filo israeliana, ma lei non si riconosceva affatto in quella veste.
Diceva che entrambe le parti avevano le loro ragioni, ma che nel profondo noi non possiamo capirle.
Diceva che lei non aveva gli strumenti per giudicare i torti e le ragioni degli uni e degli altri.

Diceva che se un israeliano aveva investito un bambino palestinese che tirava sassi contro la sua macchina con a bordo suo figlio, lei non era in grado di dire che cosa avrebbe fatto al suo posto….in fondo non possiamo capire il senso di protezione che scatta in quel momento in un genitore. Eppure, il perché dell’azione di quel bambino palestinese non se l’è chiesto.

Diceva che sarebbe voluta venire in West Bank, ma la sua compagna di viaggio le diceva che era un posto pericolosissimo, al punto che l’ansia e la paura avevano contagiato le sue parole e il suo sguardo. Io che in quel posto ci abito da più di un mese, all’improvviso mi sono ritrovata a chiedermi dove si trovasse quel luogo pericolosissimo di cui lei stava parlando.

Le parole a volte hanno il potere di creare distanze insormontabili. Questo potere ce l’hanno ancora di più quando sono dettate da un non aver visto o, peggio, da un non voler vedere. I suoi erano occhi che non si sentivano di giudicare, semplicemente perché non avevano niente da giudicare, avendo visto solo una faccia della medaglia.

Diceva che sarebbe voluta venire a visitare il nostro villaggio, che non poteva credere al fatto che Israele privasse dell’acqua i palestinesi. Un problema fondamentale in West Bank, ma in fondo solo uno dei tanti, ho pensato. Al confronto al villaggio noi ne abbiamo uno quasi banale: dei bambini palestinesi non possono andare a scuola senza una scorta militare israeliana che li accompagna ogni giorno.

Diceva tante cose, diceva che sarebbe tanto voluta venire al villaggio,
ma ha concluso dicendo che forse era meglio se tornavamo noi a trovarla al kibbutz…