Palestina
A volte capita di dormire, più spesso di rimanere svegli a lasciarsi tormentare dai rumori della notte, cani che abbaiano, asini che ragliano, mentre i pensieri e le immagini assorbite durante il giorno cominciano ad affollarsi, il sonno si allontana e nonostante la stanchezza diventa impossibile dormire. At-Tuwani, il villaggio palestinese in cui vivo da 5 mesi, se ne sta ostinatamente aggrappato a una delle tante colline delle South Hebron Hills, la zona più a sud della Cisgiordania, proprio a pochi chilometri di distanza dalla Green Line, invisibile linea di confine fra Israele e un quanto mai improbabile, almeno per il momento, futuro stato palestinese.
Dopo che il villaggio venne evacuato per la prima volta dai militari israeliani nel 1999 con l'intenzione di ricavarci una base militare, gli abitanti di At-Tuwani (oggi circa 300 persone), guidati da Hafez Hereini, attivista e leader carismatico del villaggio, si sono organizzati e hanno iniziato una lotta nonviolenta per resistere (e sopravvivere) all'occupazione militare israeliana e ai continui soprusi da parte dei coloni del vicinissimo insediamento di Ma'on (nato agli inizi degli anni 80) e dell'avamposto di Havat Ma'on (nato intorno agli anni 90 e illegale tanto per la legge internazionale quanto per quella israeliana).
Marce e manifestazioni pacifiche, training sulla nonviolenza rivolti a uomini, donne e bambini, presenza fissa di internazionali che condividono quotidianamente la vita del villaggio (365 giorni all'anno dal 2004), delegazioni da tutto il mondo in visita, contatti costanti con i media nazionali e internazionali, hanno fatto di At-Tuwani, nel corso degli anni, la roccaforte della Resistenza nonviolenta palestinese nelle South Hebron Hills e il punto di riferimento per tutti i villaggi della zona, nonché per le associazioni e le organizzazioni nazionali ed internazionali che si occupano dei diritti umani e delle problematiche legate al conflitto.
Parte della popolazione delle South Hebron Hills vive in quest'area da molte generazioni, parte è stata costretta a trasferirsi qui, come profuga, in seguito alla nascita dello stato di Israele, nel 1948. Le persone che vivono in quest'area sono dedite soprattutto alla pastorizia e in parte all'agricoltura: molti abitano in grotte o in tende e hanno uno stile di vita sobrio ed essenziale, legato esclusivamente all'accesso alla terra (la propria) e, ovviamente, alla possibilità di lavorarla o anche solo di “calpestarla” per pascolarvi le greggi.
Impresa da poco, questa, probabilmente in qualsiasi altra parte del mondo, ma di certo non qui. Non qui in area C, dove dal 1993, secondo quanto stabilito dagli accordi di Oslo, tutte le terre sono sottoposte al controllo militare e amministrativo israeliano, dunque ai “capricci” dell'esercito e agli ordini che esso esegue per assecondare la politica di occupazione del governo israeliano.
Non qui ad At-Tuwani, dove dagli anni 80 la terra è stata, e continua ad essere, contesa, occupata, rubata e violata dai coloni dell'insediamento di Ma'on che, nonostante si faccia un gran blaterare di “congelamento degli insediamenti”, continuano ad espandere indisturbati le loro case sulla collina di fronte al villaggio, come avvoltoi in attesa che la preda si arrenda al suo destino.
Come volontaria di Operazione Colomba -il corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII che si occupa di monitorare l'area, denunciare le violazioni dei diritti umani e magari abbassare il livello della violenza- non nascondo che ad assistere quotidianamente alla “messa in scena della guerra” fra villaggi di pastori e greggi di pecore belanti, a lungo andare ne viene fuori una sensazione di assurdità tale che, se non fosse per il fatto che tutto questo accade davvero, è realtà e non finzione, ogni giornata sfocerebbe nella più grottesca delle commedie.
Ma purtroppo non è così, il teatro dell'assurdo messo in scena dai coloni e dai soldati israeliani rovina ogni giorno la vita di centinaia di persone, adulti e bambini, che a causa delle continue violenze fisiche, e soprattutto psicologiche, a cui sono sottoposte, vedono drasticamente peggiorare le proprie condizioni di vita (peraltro già difficili considerati il territorio, la scarsità d'acqua e le difficoltà di movimento a cui l'occupazione li costringe).
Nelle South Hebron Hills aggressioni, attacchi, violenze e sopraffazioni da parte dell'esercito e dei coloni israeliani si sono sempre registrate nel corso degli anni, ma da gennaio di quest'anno qualcosa è cambiato e la situazione sta decisamente peggiorando. Fino agli ultimi mesi del 2009 i militari si limitavano per lo più a scacciare e a intimidire i pastori raggiungendoli con le loro jeep e osservandoli andarsene dalla cima delle colline; quelli addetti alla scorta militare dei bambini palestinesi (diretti alla scuola di At-Tuwani dai villaggi di Tuba e di Maghayr Al Abeed e costretti a passare attraverso l'insediamento e l'avamposto per raggiungere il villaggio) certo spesso arrivavano in ritardo, non sempre camminavano al fianco dei bambini (come stabilito per legge dal Parlamento israeliano) ma ad ogni modo, più o meno bene, portavano a termine il loro compito e gli attacchi dei coloni, almeno quelli gravi, per quanto “sufficienti”, si verificavano in maniera saltuaria o comunque non costante.
Anche i soldati dal canto loro hanno moltiplicato le aggressioni fisiche e gli abusi di potere nei confronti della popolazione: pastori inseguiti, trattenuti e sempre più di frequente arrestati, per un paio di giorni o poco più, senza che gli vengano mosse accuse precise e senza che venga data loro la possibilità di parlare con i propri avvocati o anche solo con i propri famigliari per informarli sul luogo di detenzione, sono ormai quasi all'ordine del giorno. Atti intimidatori e prepotenze che mirano a sfinire psicologicamente la popolazione palestinese e a indurla ad abbandonare l'area, senza che peraltro, in questo periodo, vengano fatte distinzioni fra adulti e minori. Come la mattina del 6 marzo, quando tre bambini di 13 anni, dopo essere stati trattenuti dai soldati per una ventina di minuti in ginocchio, sono stati caricati su una jeep e portati via per mezz'ora, perché sorpresi a raccogliere delle erbe di campo in una valle “troppo vicina” all'insediamento di Ma'on. Si tratta fra l'altro degli stessi soldati israeliani che, al mattino presto e all'uscita da scuola, avrebbero il compito di scortare i bambini palestinesi (di Tuba e di Maghar Al Abeed) attraverso l'insediamento, ma che spesso non si presentano o arrivano in ritardo di ore, esponendo così i bambini agli attacchi dei coloni. E soldati che, anche quando arrivano, in ogni caso, scortano i bambini solo per una parte del tragitto stabilito per legge dal Parlamento israeliano, senza camminare al loro fianco e addirittura in diversi casi forzandoli a correre a suon di clacson e intimidendoli con l'altoparlante. Infine, come se non bastassero i pensieri e le immagini accumulati durante il giorno a creare uno stato di allerta permanente, nell'anno nuovo, a turbare il sonno, e soprattutto i sogni di At-Tuwani si sono verificati anche diversi raid notturni dei militari. Uomini a bordo di alcune jeep, in assetto di guerra e coi fucili puntati, in almeno tre occasioni, hanno svegliato tutto il villaggio e solo per consegnare a qualcuno una convocazione alla centrale di polizia, un ordine di demolizione o qualche altro cavillo burocratico. All'una di notte. In assetto di guerra e in un villaggio dove alle nove di sera si va dormire, perché qui in area C anche avere l'elettricità è proibito ai palestinesi e la luce c'è solo grazie a un generatore a benzina, che funziona per un paio d'ore la sera.
Il villaggio di At-Tuwani fortunatamente si trova in una posizione geografica che, assieme al resto dell'area, lo pone al di fuori dei centri nevralgici della politica palestinese e dei giochi di potere in cui spesso si decidono e organizzano le forme più estreme di resistenza all'occupazione, ma non così lontano tuttavia dal resto della Cisgiordania per non essere al corrente di cosa accada nel paese e non assorbirne gli umori, e i malumori, che lo attraversano. Sapere che Israele sta stringendo la sua morsa, dopo il disastro di Gaza, oltre che sulla Striscia, anche su tutti i luoghi di maggiore importanza per il popolo palestinese da un punto di vista religioso e identitario (fra cui anche Gerusalemme Est) significa fiaccare la capacità di sopportazione di un intero popolo, significa umiliarne l'identità e la dignità, significa annientarne le speranze e i sogni.
Non solo, significa anche che quando ad At-Tuwani, o in qualsiasi altra parte della Cisgiordania si subisce una violenza da parte dei coloni o dell'esercito, questa “pesa doppio”, fa ancora più male, e il senso di oppressione e di ingiustizia che ne emergono possono arrivare ad oscurare il buon senso e la tenacia delle persone e, soprattutto, la profonda consapevolezza che i palestinesi di quest'area hanno che, qui, un cedimento alla violenza, al farsi giustizia da sé, magari anche solo ricambiando il torto con il lancio di una pietra, può significare fornire a Israele su un piatto d'argento il pretesto per spazzare via tutto. La resistenza nonviolenta è stata una scelta ben precisa che il villaggio di At-Tuwani ha fatto molto tempo fa, prima che arrivassero gli ajaaneb (gli internazionali) a supportarla con la loro presenza, nella convinzione che questa fosse l'unica vera forza da contrapporre alla violenza e agli abusi dell'occupazione israeliana e l'unica, soprattutto, in grado di fare in modo che il diritto dei palestinesi di continuare a vivere nell'area fosse rivendicato e supportato attraverso la legalità, attraverso la giustizia, in un angolo di mondo dove di sicuro la giustizia non è uguale per tutti. Questo è stato possibile perché la speranza non ha mai abbandonato la gente delle South Hebron Hills e gli anni di lotte e di successi ottenuti hanno dimostrato che la loro strategia, nonostante le sofferenze, è stata quella vincente (in un contesto dove la posta in gioco è la sopravvivenza e l'esistenza stessa delle comunità palestinesi). In questi mesi cupi la gente di At-Tuwani non ha smesso di credere nella resistenza nonviolenta, nonostante questa venga messa ogni giorno veramente a dura prova dagli eventi e la pressione da sopportare sia enorme. Noi volontari di Operazione Colomba, in questa situazione di allerta e di emergenza mai vissute prima, restiamo vicini alle persone, apprendiamo dai palestinesi -che sotto occupazione ci sono nati- il coraggio e la forza della nonviolenza, l'ottimismo e la speranza che non si lasciano logorare dagli eventi e, insieme, l'energia per continuare a resistere.
Di notte, alla luce intensa della luna piena, At-Tuwani sembra un presepe. Non si muove nulla, i colori delle case si confondono con quelli della terra, le curve morbide delle colline rasserenano lo sguardo e, a volte, capita anche di tornare a dormire.
A.Z.