Storie di uomini, donne e capre

Palestina/Israele

Arriviamo in un villaggio sperduto in mezzo alle immense distese di terra semi-desertiche del nulla. Il nulla che diventa tutto: vita, sopravvivenza, quotidiano scorrere lento di gioie e dolori. Halaweh è un piccolissimo villaggio palestinese al confine con Israele, quasi a ridosso della linea verde.
Poche case, alcune grotte e un paio di tende, donne, uomini, bambini e tante pecore e capre.

Semplicità, umiltà e dignità nella povertà isolata di un luogo sospeso nel vuoto.
Siamo lì perché alcuni soldati israeliani hanno fermato due pastori, sequestrato i loro telefoni, picchiato uno di loro e minacciato di uccidere il gregge se fossero tornati a pascolare nelle proprie terre, in quegli stessi campi che presto saranno sotto ordine di evacuazione a causa di una decisione dell'alta Corte di Giustizia Israeliana che l'ha dichiarata zona di esercitazione militare.
Al nostro arrivo ci accoglie un ragazzo con due stampelle in mano. Si trascina a fatica appoggiandosi su un solo piede, strisciando l'altro sulla terra arida, muovendo a fatica un braccio dopo l'altro.
Un sorriso sul volto ci lascia intendere che siamo i benvenuti. Subito dopo una donna, sua moglie, ci saluta calorosamente con un bambino in braccio.
Ci accomodiamo sotto una tenda molto grande, ma evidentemente povera, su materassi sudici e strappati che evidenziano le difficoltà che aggravano la già pesante occupazione militare.
Una tazza di tè aromatizzata allo Zatar, un po' di frutta fresca e qualche domanda curiosa sugli ajaneb, gli stranieri che vengono da un luogo culturalmente così lontano a vivere un conflitto che non è il loro.
Ci dicono che dobbiamo aspettare il pastore che è uscito con il gregge per poter fare l'intervista e capire cosa sia successo. La donna si siede a terra, lavora una strana pasta bianca immersa in un liquido biancastro. Vedendo i nostri sguardi incuriositi capisce che non sappiamo cosa stia facendo: ci spiega allora che sta lavorando il leban, un buonissimo formaggio di capra, dal sapore pungente e deciso. Poco dopo arriva il padre del ragazzo che ci ha accolto.
L'uomo è  l'esatta raffigurazione dello stereotipo palestinese: baffoni brizzolati, pelle scura, Kefiah in testa e sigarette artigianali costantemente in mano, quasi a misurare e scandire lo scorrere lento del tempo. E' un uomo pacato, quasi rituale in ogni gesto, affettuoso con il nipotino e simpatico con gli ajaneb, nonostante siano tutte donne. Ci spiega qualcosa sull'accaduto, ma ribadisce che dobbiamo aspettare i pastori di ritorno dal pascolo.
I due arrivano poco dopo. Uno di loro, quello a cui facciamo l'intervista, è evidentemente scosso. Parla convulsamente e spiega di essere stanco. E' lui che hanno picchiato e che, insieme all'altro pastore, ha subito le minacce dell'esercito e del suo strapotere.
Di nuovo, per l'ennesima volta. Ci spiegano che ogni tanto hanno bisogno di staccare, di allontanarsi da quella terra che amano, ma così difficile da vivere. Non possono guidare nei loro campi, la città più vicina è a molti chilometri di distanza, il pozzo più vicino è in un villaggio a mezz'ora di macchina, le loro terre aride e povere di frutti sono al confine con Israele.
Ogni tanto allora vanno in città, dove hanno una seconda casa per respirare senza paura. Non abbandonano le loro terre, anche se potrebbero andare a vivere in città; rimangono nelle lande aride del sud, dove il vivere diventa essenza, arte, mestiere.
Per alcuni potrebbero sembrare pazzi masochisti o testardi disturbatori del quieto vivere israeliano. Molti pensano 'perché non se ne vanno?', ma questa non sarebbe una soluzione.
Scappare dai problemi significa dimenticare di averli, non risolverli. Andar via significherebbe perdere le loro terre, regalarle alla potenza egemone che occupa le loro esistenze, arrendersi alla legge del più forte, senza lottare, senza reagire. Invece loro affrontano le difficoltà a testa alta e con il sorriso sul volto. La loro fierezza si veste di dignità e orgoglio. La prima vittoria è la capacità di non arrendersi.
Ce ne andiamo salutando i palestinesi e addormentandoci in macchina sulla via del ritorno sogniamo un mondo migliore.