Diario dal Sur.

Sopra di me i cieli interminabili dell'emisfero australe fanno da rifugio, le nuvole sembrano il risultato di un movimento accurato. Disegnano corpi e figure in movimento, così definite e precise, che è facile perdersi alla ricerca dei più disparati significati di queste forme: acquarelli color turchese e avorio che all'imbrunire si tingono di un rosa dolomia. Mentre l'occhio dello stupore si interroga sui significati di questi giochi celesti, il tempo sembra scorrere più lento a queste latitudini.
Le sorelle stelle vengono a salutare ogni notte, così come la regina indiscussa di queste terre, la Cruz del sur, è lì che gravita nell'oscurità, illuminando la via maestra e ricordandomi su che pezzetto di mondo sto camminando.

Scrivo queste parole nel bel mezzo del campo, in una casetta di campagna nel cuore dell'Araucania, la IX regione dello Stato del Cile, una delle regioni più povere del Paese, fortemente militarizzata e con la più alta percentuale di presenza di persone di origine Mapuche. I cani dei vicini abbaiano e giocano tra loro, mentre un gregge di pecore viene a brucare l'erba del nostro giardino. Ciascun elemento trova un senso e un ruolo nell'avanzare del tempo, mostrando all'uomo moderno che ogni tassello si incastra perfettamente in una quotidianità ancestrale, ma che continua ad esistere, a persistere.
La vita nel Wallmapu scorre seguendo regole antiche e per me, bianco occidentale, Corpo Civile di Pace con la Comunità Papa Giovanni XXIII - Operazione Colomba, si fa sempre più costante un tentativo di decostruzione mentale, spirituale, per comprendere a pieno ciò che i miei occhi vedono e che il mio cuore incontra.

Mi trovo in Cile, nel cuore dei territori originari della popolazione autoctona Mapuche.
Nell'esercizio di ribaltare il concetto di proprietà privata, nell'incontro costante con donne e uomini, comprendo sempre di più la lotta che queste comunità da migliaia di anni stanno portando avanti, contro uno Stato moderno che, sempre più cieco, finge di non capire le proprie origini violando di continuo la libertà di un popolo di autodeterminarsi e di poter vivere dei territori a cui appartiene.

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Sono atterrato a Valdivia a fine agosto, in un giorno di sole. Le persone che vivono qui da tempo mi hanno detto subito che è un evento raro per la stagione, dal momento che la città è famosa per la pioggia. La prima cosa che mi ha colpito guardando fuori dall’oblò dell’aereo è stato il verde intorno alla zona urbana. L’aeroporto dista circa mezz’ora dal centro, per raggiungere la città si percorre una strada che attraversa un’area rurale circondata da boschi e parti di foresta temperata, costeggiando il fiume e le zone umide.
Il mio arrivo è coinciso con un periodo dell’anno molto importante per il Cile. Pochi giorni dopo, infatti, sono ricorsi i 50 anni dal colpo di stato che l’11 settembre 1973 rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, dando inizio alla feroce dittatura del generale Augusto Pinochet.
Un mese è troppo poco per farsi un’idea del posto in cui si vive, ma leggendo le notizie e parlando con le persone incontrate in questi giorni, l’impressione che mi sono fatto è che, a 50 anni dal golpe, il Paese è ancora profondamente diviso. A Santiago la commemorazione delle vittime della dittatura è stata segnata da scontri e violenze. Pur se ben lontana dal fermento che ha segnato le strade della capitale, anche a Valdivia il giorno prima della commemorazione qualcuno ha manifestato il proprio dissenso lasciando dei sacchi di escrementi nella casa della memoria, ex centro di detenzione e tortura ai tempi della dittatura e oggi luogo di iniziative culturali e ritrovo per i familiari delle vittime. Un gesto teso ad allontanare la riconciliazione e minare la costruzione di una memoria condivisa.

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Vivendo in una società maschilista e patriarcale, facilmente ci si dimentica che nelle guerre, nelle lotte e nelle dittature, come quella di Pinochet in Cile, di fianco agli uomini ci sono sempre state, e tutt’ora sono presenti, molte Donne. Nella storia e nella quotidianità viene completamente negato il riconoscimento della presenza femminile, relegandola in continuazione a ruoli secondari, o spesso nel ruolo di vittime. Tutt’oggi continuo a non capire perché la donna non venga presa in considerazione e valorizzata in quanto tale, quando sappiamo che nella storia, nella scienza e nelle lotte più significative la protagonista è stata spesso lei, e continua ad esserlo.
Nella cultura mapuche si ha una cosmo-visione senza disparità di genere, basata su principi di uguaglianza e dualità. Sia uomini che donne partecipano in vari ambiti e con diversi ruoli intercambiabili: ad esempio le/i machi (coloro che intermediano tra il popolo mapuche e gli spiriti della salute, del benessere e della tranquillità) o le/i longko (le/i leader delle singole comunità).
Nonostante questo, l’influenza del colonialismo si percepisce. Si è creata nel tempo una spaccatura più netta tra i ruoli considerati “femminili”, riguardanti il preservare la cultura e la conservazione delle pratiche della medicina mapuche, e quelli “maschili”, di guide della comunità, soprattutto dal punto di vista politico e di rappresentanza.
I mapuche sono spesso discriminati dalla società civile, dallo Stato cileno, e non sono riconosciuti nella Costituzione del Paese, ma lottano quotidianamente per il riconoscimento delle proprie terre ed identità culturale in quanto popolo nativo. In questa cornice le donne subiscono ulteriori discriminazioni, in quanto Donne, povere ed indigene. Sono loro, però, quelle che combattono giorno dopo giorno per l’educazione dei propri figli, per la cultura, la lingua, le terre e per preservare i doni della natura.

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Negli ultimi anni la celebrazione del 2 giugno passa e quasi non me ne accorgo.
Non è che non dia valore all’opportunità che ho avuto di nascere e crescere in una democrazia repubblicana, ma alcune volte, quando una cosa c’è, si rischia di darla per scontata.
Quest’anno, però, è stato diverso: sarà per la guerra che alle porte d’Europa da più di un anno continua e rischia una escalation, sarà per le suggestioni di un podcast che mi ricorda l’assedio di Sarajevo, città dove ho tentato di andare senza successo.
Più probabilmente sarà perché sono al di là dell’oceano, dall’altra parte del mondo.
Sarà perché sono in Cile, un Paese che dopo una feroce dittatura è tornato alla democrazia nel 1988.
Un Paese che sta cercando di dimenticare la dittatura nata quell’11 settembre di cinquant’anni fa, ma che forse dovrebbe ricordarla; un Paese in cui le vittime della dittatura e quelli che si sono battuti per giustizia e libertà non vanno nelle scuole a raccontare.
Sì, forse da qui il 2 di giugno ha più senso, più valore, o forse sono io che da qui capisco meglio il valore della nostra Repubblica e della nostra Costituzione.
In questi giorni ho riletto l’articolo 11: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
In questo 2 giugno in Cile come volontari di Operazione Colomba abbiamo accompagnato un gruppo di giovani studenti mapuche che manifestavano nelle strade di Valdivia per ricordare all’opinione pubblica che, in nome del progresso e dell’energia, non è giusto distruggere un fiume, il rio Pilmaiken. Non è giusto inondare un luogo sacro e un antico cimitero, e non è giusto disturbare lo “Ngen Kintuante”, lo spirito che secondo i mapuche abita sulle sue rive.

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È un giorno di pioggia e siamo diretti ad un fondo rivendicato da una comunità mapuche, loro la chiamano “recuperación”; recuperare la terra che gli è stata rubata con la violenza dallo Stato cileno nella seconda metà dell’ottocento; per i latifondisti e per le forze dell’ordine si tratta di usurpazione di proprietà privata.
Arriviamo e ad accoglierci c’è il Lonko. Ci sediamo all’interno della loro casa, fatta di lamiere e teli di plastica. All’interno fa freddo, c'è una vecchia lavatrice utilizzata come camino. Sotto i nostri piedi scorre un fiumiciattolo creato dalle forti piogge. Chiedo da quanto tempo vivono in queste condizioni, mi rispondono che sono qui da gennaio. Rimango sorpreso. Condividiamo un mate e un’ottima zuppa di fagioli. L’amore che si prova per questa celestiale comunità è racchiuso in un’unica persona: M., che ha deciso di dedicare la sua vita alla salvaguardia del territorio e della cultura Mapuche. Dopo il pranzo inizia a cantare in mapudunkun, la sua voce vibra potente nella stanza: "Noi siamo il popolo della terra e faremo di tutto per proteggerla".

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