Il ritorno in Albania è stato tanto atteso, dopo la pandemia.
Rivedere una terra che ti è entrata dentro e scrutarla in costante cambiamento, le sue città in perenne trasformazione per stare al passo con un'Europa disorientata. E anche se il clima è mutato in questi ultimi anni, ho ritrovato lo stesso sole forte di sempre, quel calore che brucia la pelle e la nuca.
Un calore che ho provato durante tutti gli incontri di questi giorni: dall’emozione di ricongiungerci ai nostri amici e collaboratori con cui per anni abbiamo costruito il progetto contro le vendette di sangue in Albania, all’ansia di riabbracciare i membri delle famiglie di cui, con Operazione Colomba, ci siamo presi cura per molto tempo nel nord del Paese.
Abbiamo trascorso questi giorni come facevamo un tempo, visitando queste famiglie nei sobborghi di Scutari. Mentre ripercorrevamo quelle strade a noi tanto familiari, ci chiedevamo come le avremmo ritrovate e chi ancora fosse in casa. Quando arrivavamo notavamo la sorpresa e la gioia che, contemporaneamente, comparivano sul volto delle persone. Più volte ci è stato ripetuto “non vi siete dimenticati di noi” e noi prontamente rispondevamo: “e come avremmo potuto?”.
E tra tutti i vari racconti su come stanno, su come abbiano trascorso gli ultimi anni, su cosa fanno ora i loro figli, su come siano cresciuti bene, mi porterò sempre dentro i sacrifici che i giovani emigranti stanno facendo adesso per ripagare i genitori degli stessi sacrifici che hanno fatto per loro quando erano piccoli.

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Temevo che tornare in Albania avesse il sapore nostalgico del fuori sincrono, fuori tempo, fuori fuoco. Invece significa riconoscere i luoghi, i profumi, le ombre dei palazzi e le buche per la strada. Il ponte di Bahcallek con la tekke bektashi verde acqua ci danno il benvenuto, sotto lo sguardo del castello Rozafa. L'imponente cattedrale cattolica e la moschea bianca circondata dal verde sono sempre a guardia dei due capi della zona pedonale di Scutari.
Non c'era percorso per andare a trovare le famiglie che avevamo conosciuto, che avessimo dimenticato: dove abitavano, com'era il cancello di ingresso, che cosa piantavano di solito nell'orto a primavera. Sono passati quasi quattro anni e ci sembrava di averli salutati il giorno prima.

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Avevi due occhi azzurri brillanti contornati da un reticolo di rughe, che componevano la mappa dei dolori della tua vita sulla pelle sottile del volto.
Ti abbiamo conosciuto minuta, vestita sempre di nero, un po’ incurvata dall’età, ma sempre pronta a offrirci una bibita e qualche caramella.
Varcato il cancello di ingresso del tuo cortile, restavamo accecati dal biancore luminoso della calce del pavimento, su cui spiccava qualche pianta in vaso.
Poi comparivi tu, col tuo foulard nero in testa, e contenta di vederci ci facevi accomodare subito dentro.
In una notte di follia, in cui avevi perso un figlio e due nipoti, eri rimasta ferita anche tu, e ti eri salvata per miracolo da quella sparatoria che aveva gettato la tua vita nel lutto perenne.
Avevi avuto parole dure per tutti: per i giornalisti, che non ti lasciavano in pace nemmeno nel tuo letto di ospedale; per le istituzioni, i cui rappresentanti si mostravano a favore di telecamere ma non si occupavano delle vittime della sparatoria; per le forze dell’ordine, che non riuscivano ad arrestare i colpevoli; per gli autori del delitto, che ti avevano portato via la tua famiglia.

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All'inizio penso sia uno scherzo e chiedo a Blerina di ripetere.
"Come?"
Forse non ho capito perché non conosco ancora bene l'albanese.
"Come? Puoi ripetere per favore?".
"Kol ha smesso di bere, non è stato bene e ha smesso di bere. Così da un giorno all'altro ha detto: Basta! Basta alcool, mi fa solo male".

Sono passati due mesi dall'ultima visita a questa famiglia, ormai passiamo più raramente a trovarli a casa, perché il problema più grave sembrava essere l'alcol. Il maledetto alcol, che attanaglia ogni famiglia che si autoreclude in casa per timore di subire una “vendetta di sangue”.
Il maledetto alcol, che sembra emolliente per ogni frustrazione, per il terrore costante di essere uccisi.
Blerina ci dice che è stato come rinascere, come una nuova vita che qualcuno ha deciso che dovevano vivere. “È incredibile! All'inizio non ci credevo” - continua annuendo - “invece poi ho visto uno, due, tre, quattro giorni senza che lui toccasse una sola goccia di raki, e così mi sono detta che forse davvero è la volta buona!”.
Ci guardiamo un po' esterrefatti, sorpresi, felici. Non ci sembra quasi vero, perché l'abuso di alcol è una delle pessime certezze che avevamo nel progetto in Albania. Quasi ogni famiglia coinvolta nella “vendetta di sangue” lotta ogni giorno contro la piaga della dipendenza da alcol.

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All’inizio del 2020 è stata chiusura la presenza di Operazione Colomba in Albania.
Tale decisione è stata frutto di numerose riflessioni, a partire dai risultati positivi raggiunti in 10 anni di progetto!
La maggior parte delle famiglie “in vendetta” da noi seguite ha migliorato le condizioni di vita: alcune sono uscite dalla paura smarcandosi dalla situazione di isolamento in cui vivevano; altre hanno abbandonato l'idea di vendicarsi e hanno ricominciato a progettare il proprio futuro.
L'attività di monitoraggio di questi casi è stata passata in consegna ai missionari della Comunità Papa Giovanni XXIII che continua la presenza in Albania con strutture di accoglienza e interventi di solidarietà.
Inoltre, è stato consegnato a diverse realtà locali un kit di “buone prassi” che Operazione Colomba ha maturato nella gestione nonviolenta dei conflitti scaturiti dalla pratica della “vendetta di sangue”.

Dai seguenti link è possibile visionare tutto il materiale prodotto (analisi, riflessioni, approfondimenti, diari, Comunicati Stampa…) in 10 anni di presenza sul campo:

- PROGETTO
- CONTESTO
- NOTIZIE DALLA PRESENZA
- APPROFONDIMENTI SULLA GJAKMARRJE
- REPORT MENSILI
- COMUNICATI STAMPA
- BLOG - UN POPOLO CONTRO LE VENDETTE DI SANGUE
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