Mykolaïv, Ucraina, è domenica sera, sono le 8, ma il cielo è ancora chiaro, un temporale appena passato ha reso l’aria fresca e nitida.
Come ogni dopo-cena esco dal cancello della comunità che ci ospita e giro l’angolo.
È il mio momento personale per "riprendere fiato": togliermi un attimo da una ricca e densa quotidianità di relazioni, fumarmi una sigaretta, guardare le ultime chat sullo smartphone, sentire come stanno a casa.
Ed è proprio durante una telefonata che succede.
Non so neanche come definirlo, uno scoppio, un boato, qualcosa di fortissimo, mai sentito prima! Capisco all'istante di cosa si tratta, anche se le sirene questa volta non hanno suonato.
Ho il cuore in gola, mi alzo di scatto e accelerando il passo vado verso il cancello.
Un altro boato.
Incontro la faccia familiare e preoccupata di Ale "Bombardano! Dentro, dentro!".
E mentre scendiamo le scale per entrare nel rifugio, un altro ancora, il terzo.
Questa volta i razzi sono arrivati molto, ma molto vicini.
Siamo dentro.
Mykolaïv

Mykolaïv dista 140 km da Odessa, circa due ore e mezzo di autobus.
Per strada ci sono 4 posti di blocco militari e all’ultimo, quello più grande prima di entrare in città, ci fermano e ci fanno scende dal mezzo.
I soldati sono visibilmente agitati, non deve essere usuale vedere degli stranieri che vogliono entrare in città.
Tante domande e controlli, per poi farci passare solo dopo aver parlato al telefono con M., l’amico che ci aspetta a Mykolaïv.
Una volta arrivati ci spiegherà che l’esercito ha paura delle spie, e che, pochi giorni prima, un cittadino europeo che era entrato aveva poi dato delle informazioni su edifici da colpire ai russi.
M. aveva personalmente arrestato un cittadino russo che faceva domande e fotografava edifici, che sono subito dopo stati colpiti dai razzi.
“Mykolaïv è Ucraina”, si legge nei cartelloni propagandistici per le strade della città e si ascolta nello slogan registrato dal sindaco che passa spesso in radio.
Una frase banale che risuona quasi come una rivendicazione, quando la minaccia di occupazione delle truppe nemiche è costantemente alle porte.
A primo impatto sembra una città quasi deserta, ed in parte lo è.
Motanka

(Illustrazione grafica di Carlos)
Alcuni giorni fa gli amici di UEP ci hanno spiegato che nella tradizione Ucraina c’è una piccola bambola, si chiama “Motanka”, che ogni famiglia tiene in casa perché protegge dal male.
Ce ne hanno regalate alcune dicendoci: Siete voi la nostra protezione con quello che avete fatto. Girate questa “medaglia” ad ognuno dei partecipanti della carovana #StopThewarNow, tenetela stretta e siatene fieri!
Il silenzio

In tanti mi chiedono come sia essere tornato a casa, non ci sono parole semplici per rispondere.
L’effetto più importante penso sia percepire il silenzio, a cui non si è abituati, un silenzio talmente pieno da sembrare rumoroso.
Il non portarsi dietro la sensazione delle sirene, che in tanti, troppi, bambini, famiglie, anziani, ancora continuano a sentire, unita al suono delle esplosioni.
Poter vivere la giornata interamente senza spezzarla, lasciare andare il senso di allerta, quel campanello di attenzione che tieni in un angolo dentro testa e cuore, e che non si spegne mai davvero.
Perché è un campanello che vorrebbe proteggerti.
Come fosse solo uno dei primi giorni di primavera
Olena solleva lo sguardo dal ferro da stiro con aria tesa:
“È la sirena?”
Mi guardo intorno,
esco nel cortile e sto in ascolto,
operai che lavorano,
automobili che suonano nel traffico,
tutto sembra scorrere.
“No”, è la mia risposta: “Non mi sembra”.
Olena si lascia leggermente andare,
gli occhi lucidi:
“Credo di stare impazzendo, faccio fatica a dormire, la mia vita è stata difficile in passato,
ma non avrei mai pensato di vivere una situazione del genere”.
“Oramai quando sento la sirena mi siedo e prego, questo è ciò di cui c’è bisogno,
di guarire dalla malattia del potere e del denaro,
che ha infettato la mente della persona che ha scatenato tutto questo”.