Immagina il tuo Paese, la tua terra, la tua città, quel posto dove sei cresciuto, dove hai avuto la tua prima fidanzatina o fidanzatino, dove hai imparato a camminare e a parlare, quel luogo che chiami casa.
Lo lasceresti mai con l'idea di non tornare più?
Lasceresti tutto ciò che hai guadagnato e che possiedi?
Abbandoneresti parte della tua famiglia con la consapevolezza che probabilmente non la rivedrai mai più?
Immagina di non poter più scegliere il tuo futuro, di vederti costretto a partire, per il bene tuo e della tua famiglia.
Non hai un visto, non ti è concesso averlo, sei obbligato a intraprendere un viaggio che mette in pericolo la tua vita e quella della tua famiglia, non hai alternative.
Devi pagare molti soldi per un viaggio via terra, stipato in camion dove a malapena riesci a respirare, o via mare, prendendo un barcone con tantissime altre persone che potrebbe rovesciarsi in mezzo al mare.
Nonostante queste condizioni, questa è l'unica strada.
Immagina di sentirti fortunato perché vedi in lontananza la terra ferma, quella terra che è l'Unione Europea, quella terra che tutti ti hanno descritto come sicura, dove potrai finalmente ricominciare, dove i tuoi figli potranno avere un futuro.
Immagina di arrivare e di riuscire, dopo tanti anni, a respirare a pieni polmoni, sicuro di avercela finalmente fatta.
Poi però ti rendi conto che non è così.

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Quando riceviamo la video-chiamata di J., una nostra amica congolese che vive nel campo di Ritsona, non capiamo subito cosa ci stia dicendo, ma notiamo che si trova fuori dal campo con molte altre persone, sentiamo una gran confusione in sottofondo e percepiamo la preoccupazione nella sua voce.
Non ci sono dubbi: sta succedendo qualcosa al campo e noi dobbiamo esserci; non aspettiamo oltre e ci mettiamo subito in macchina.
A pochi chilometri dal campo veniamo fermati dalla polizia perché la strada è bloccata, lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi: i nostri amici ci aspettano e noi vogliamo essere lì con loro.
Una volta arrivati vediamo molte persone della comunità congolese, soprattutto donne, fuori dal campo; alcune urlano, altre piangono, altre ancora raccolgono pezzi di gomma per accendere un fuoco: “è morto un ragazzo, ha quattro figli”, ci dicono, “è solo negligenza, questo è puro razzismo”.
Ci dicono che avevano chiamato l’ambulanza ieri sera alle 17, ma non si è presentata prima di questa mattina, quando ormai era troppo tardi.
O. è morto nell’attesa.

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Esistono cuori più "duri" di altri.
Più resistenti, più impenetrabili, più diffidenti.
Esistono persone, come me, che si avvicinano molto ma che difficilmente si lasciano avvicinare.
Persone che non sanno abbracciare.
Non con il corpo quantomeno, magari con le parole.
Persone che ci provano, ci provano spesso.
E si ritrovano in un movimento meccanico, rigido, che tradisce una certa dose di freddezza e imbarazzo in quel gesto così poco familiare.
E poi, invece, ci sono persone che trasmettono calore solo dal contatto con le mani.
Ci sono persone che sorridono con gli occhi e con tutto il corpo.
Che sorridono di niente, perché niente è quello che hanno.
Io ho tutto.
Più di tutto, più del troppo, più di quanto avessi mai realizzato di avere.
E sono rigida, non trasmetto calore… credo.
Però queste persone mi abbracciano.
E mi insegnano come si fa ogni giorno.
E ad ogni manina di quei piccoli esseri umani che mi ritrovo ad incontrare, la mia temperatura corporea si alza un po'.

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Ti stringo le mani mentre ti ascolto parlare.
Mi racconti la tua storia e quella dei tuoi 4 bambini, cresciuti troppo in fretta per non essere divorati da un contesto che non vuole vederli, non vuole prendersi cura di loro, dei loro sogni, delle loro ambizioni, della loro istruzione, della loro libertà.
Mentre parli mi chiami "mamma".
Non sei la prima a farlo: sono più grande di età e per rispetto mi chiamate nel modo più bello che c’è.
Ti guardo mentre mi parli e ti stringo le mani, Joy.
Sorridi per non piangere mentre dici che tu e i tuoi figli avete ricevuto lo sfratto perché chiude un progetto che fino a poco tempo fa dava la possibilità a tante persone vulnerabili di vivere fuori dai campi per rifugiati, e dovete andare via da quella casa e da Atene.
Non sai se i tuoi bambini potranno continuare a frequentare la scuola quando vi trasferiranno al campo profughi di Patrasso, che dista due ore e mezzo dalla capitale.
Sento che trattenere le lacrime è molto difficile ma non posso lasciarle scendere davanti a te, che invece affronti anche quest’ennesima ingiustizia con una dignità che disarma.

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Il campo di Eleonas, l'unico vicino al centro abitato di Atene, chiuderà.
La battaglia sembra persa, la resistenza dispersa.
Sebbene lottare per mantenere aperto un campo sia un paradosso per tutti noi, la distanza e la separazione che ci attendono paiono ancora più violente.
Negli ultimi mesi sono stati effettuati numerosi trasferimenti, molte persone se ne sono andate e il campo si è svuotato: vi risiedono ancora pochi uomini soli e qualche nucleo familiare; gran parte delle donne e dei bambini sono stati trasferiti e la spina dorsale del movimento di resistenza, costituita prevalentemente dalle donne congolesi, è andata via via disgregandosi.
Sembra la fine pacifica di una battaglia, ma non è così, perché non c'è nulla di pacifico in questo epilogo: i trasferimenti delle persone sono stati tutti imposti, prima mediante l'utilizzo della forza (https://www.youtube.com/watch?v=rtHy_AS-erk) e poi mediante l'arma del ricatto da parte delle stesse autorità del campo.
Non c'è scelta quando ti minacciano di sospendere la tua procedura d'asilo se non te ne vai.
Non c'è scelta quando l'alternativa al trasferimento è perdere l'unica possibilità di ottenere dei documenti.
Ma dove andranno, dove sono, gli abitanti di Eleonas?

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