Stasera sono stata a casa.
Nel senso che sono entrata in una casa sconosciuta, in cui c’era un mix di Siria, Palestina, Turchia e Italia e in cui a stento eravamo in grado di comunicare, e mi sono sentita a casa.
Devo ringraziare Nur per questo, e i suoi 4 anni e 5 mesi di allegria esplosiva.
Non mi aveva mai vista, ma mi è corsa incontro abbracciandomi e proponendomi un susseguirsi di giochi che per magia hanno funzionato.
Mi si è aggrappata alle spalle allargando le braccia come per volare, ridendo come solo i bambini e i liberi sanno fare.
Mi ha proposto il suo peluche, la bambola che ha perso i capelli, un orsetto senza un occhio.
Le ho proposto di disegnare, lei mi ha lanciato un arcobaleno di palloncini.
E rideva, quanto rideva.
Brava chi l’ha portata fino a qui, via dalla Siria, da un padre morto, probabilmente ucciso, via dalla Turchia, via da Kos, dalle tende, dal freddo paralizzante e dal caldo soffocante, via da Atene, presto.
Si vola via.
Un gioco mi è rimasto negli occhi.

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La prima notte che siamo andati eravamo solo noi.
Avevamo saputo di ciò che era successo in mattinata al campo di Eleonas e volevamo assicurarci che la situazione fosse tranquilla.
Nella prospettiva di evacuare e chiudere il campo, le autorità greche hanno pianificato i trasferimenti delle persone che vivono all'interno, senza lasciar loro alcuna possibilità scelta.
La destinazione di questi spostamenti riguarda principalmente altri campi, molto più lontani dal centro abitato e dai servizi: il più vicino, quello di Schistou, si trova a un'ora di autobus da Atene.
Sembra un paradosso: dopo aver protestato contro l'esistenza di queste strutture e di questo stesso campo, ci troviamo ora a stare accanto a coloro che ci vivono per far valere il loro diritto di rimanerci, o perlomeno di richiedere una sistemazione alternativa in prossimità della città.
Dopo gli scontri del 19 agosto, avvenuti tra la polizia e le persone che protestavano contro i trasferimenti forzati, attorno alla questione di Eleonas si è sviluppata maggiore attenzione.
La prima notte eravamo solo noi, o almeno così pensavamo.

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Siamo tutti davanti al cancello d’entrata del campo profughi di Eleonas ad Atene.
Il grande cancello si apre ed esce una donna coperta dal velo spingendo un passeggino e accanto a lei una ragazzina.
La donna si abbandona ad un pianto disperato per il dolore della morte del marito, che ieri sera ha avuto un malore senza che nessuno gli prestasse aiuto; solo 4 ore dopo dal suo infarto è arrivata l’ambulanza a constatarne la morte.
Questa donna, già schiacciata da uno Stato che non le ha riconosciuto il Diritto di asilo e protezione, ora si ritrova più sola di prima, a dover affrontare i lunghi giorni di una vita troppo difficile da vivere qui, dove da sola adesso deve crescere i suoi figli.
Questa sera siamo tutti qui, e ci sono altri gruppi che si sentono vicini ai migranti, ci sono greci, iraniani, italiani, tedeschi, tutti qui a dire che siamo uguali, e che tutti hanno il diritto al rispetto della propria dignità di essere umano.
Siamo qui e vegliamo dinanzi al campo, come una madre veglia sul sonno del suo bambino, con delicata attenzione a rispettare prima di tutto la volontà di chi vive rinchiuso nel campo della vergogna.

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Non c’era il sole, eppure la mia pelle era tutta sudata, non c’era il vento, eppure la terra arrivava nei miei occhi che mescolandosi col sudore mi bruciavano da morire.
Non c’era una montagna da scalare, eppure ero stanca ad ogni passo e il fiatone faceva un’eco profonda dentro di me.
Mi facevano male le mani come quando si scava nella terra per cercare qualcosa che non puoi assolutamente perdere, e scavi, scavi a mani nude fin quando non ti sanguinano le dita.
Non riesco ancora a rendermi conto se si tratti di un sogno, di un incubo o se sono in uno stato di incoscienza, che ecco un’onda pazzesca si infrange contro il gommone, e le urla dei compagni di viaggio mi riportano alla realtà.
Gli occhi bruciano per la salsedine del mare, e la mia pelle è bagnata dagli spruzzi delle onde che arrivano fin sopra al gommone… ho paura di non farcela.
Chi sono tutte queste persone appiccicate a me e io a loro?
L’odore della nostra carne mischiata l’uno con l’altra, respiri, sguardi terrorizzati che non si fermano a cercare compassione con nessuno dei compagni di viaggio, perché non c’è tempo per provare nulla, e non ci rendiamo nemmeno conto della reale paura che abbiamo di non farcela e di morire annegati in questo mare.

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Omar disegna sempre, nei suoi momenti bui e in quelli felici, è una sorta di terapia per lui.
Gli piace molto disegnare a matita, in bianco e nero, riscoprire le sfumature, le ombre e i punti di luce.
I suoi piccoli occhi neri color pece rinascono ogni volta che gli chiediamo di mostrarci i suoi lavori.
Ci tiene a raccontarci la storia che sta dietro a ogni suo disegno, ripercorrono la storia della sua vita: il tempo trascorso nelle prigioni dell’ISIS anche se era solo un ragazzino innocente, la violenza della guerra in Siria, la nostalgia per la sua casa e l’assenza dell’affetto materno.
Omar è scappato dalla prigionia dei terroristi grazie a una bomba che ha distrutto l’edificio; mentre scappava i guardiani gli hanno sparato ferendolo.
Lui ha continuato a correre finché non è svenuto per terra.
Si è svegliato a casa di sconosciuti che lo hanno curato per giorni fino alla totale ripresa e ricontattato la sua famiglia.
Era un giovane ragazzo in piena adolescenza, quando ha deciso che casa sua non era più un luogo sicuro per lui.
Ha intrapreso il viaggio verso l’Europa insieme ai suoi sogni per il futuro, al suo desiderio di trovare un po' di pace, alle aspettative di coltivare le sue passioni, e ai dolori e alle cicatrici della violenza e delle torture, con la forza di un ragazzino che non si piega alle avversità della vita.

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