Il tuono squarcia la quotidianità di Myniara, guardo il cielo e vedo nuvole addensarsi all’orizzonte, il tempo sta cambiando.
L’aria sopra di noi è plumbea, promette qualcosa in arrivo.
Siamo nella scuola per bambini siriani profughi di Malaak, oggi svuotata per le vacanze natalizie; in giro solo qualche volontario che fa lavoretti di riparazione.
In una stanza della guesthouse, per queste due settimane, è stata adibita una piccola clinica di fisioterapia: decine di siriani si sono iscritti per farsi visitare gratuitamente dal dottor Alan, che da Londra ha scelto di dedicare il suo tempo agli ultimi in questo angolo di mondo.

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Qualcuno ha scritto che ogni cosa è illuminata dalla luce del passato.
Qualcosa che cammina al nostro lato, che ci segue.
Quando si riflette sulla violenza e sulla sofferenza causata dalla guerra si risvegliano in noi tanti pensieri e riflessioni, ognuno ha una “guerra originaria” che si porta nel DNA.
Qualcosa di inciso, fosse stata la guerra dei nostri nonni, o dei genitori, o una guerra vissuta in prima persona.
Nessuno può dirsi davvero indenne da questo, nel profondo di noi abbiamo qualcosa che attende di essere ascoltato.
Un sentiero lastricato che porta dritti nel profondo della nostra storia, e chiunque voglia davvero essere libero dovrà compiere questo percorso.

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Me lo immagino mentre si sistema i capelli con il gel prima di uscire da casa: il taglio all'ultima moda deve essere sempre impeccabile.
Un bacio al volo alla mamma e poi via, fischiettando sulle scale.
Marwan esce per andare nello studio dove lavora come tatuatore, e magari quando avrà finito andrà a bere una birra con gli amici.
Quest'ultima abitudine magari non è esattamente propria di tutti i ragazzi di Homs, la sua città, ma a lui piace e poi per la sua religione, il cristianesimo, bere alcol non è proibito.

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Come brace sotto la cenere.
Così mi sembrano i siriani e le siriane che ho incontrato, la prima immagine che mi è venuta in mente venendo a contatto con questa realtà folle.
Tutto qui è fuori dalla nostra comprensione, tutto appare assurdo.
Nei primissimi giorni al campo sono stata sommersa da un amore forte, che riesco quasi a sentire come un  abbraccio. Sono arrivata in un giorno di festa: W. era appena uscito dalle carceri libanesi, era libero ed era a casa.
Io ero con tutti loro, che mi davano il benvenuto con filastrocche di accoglienza e con canti della rivoluzione siriana.

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M. e S. sono ancora piccole,
hanno visto poco del mondo, eppure hanno già vissuto la guerra, la fuga, lo sfollamento, la vita dura e rigida dei campi profughi in Libano.
Ieri le abbiamo accompagnate in aeroporto a Beirut insieme alla loro famiglia, hanno atteso il volo, che le avrebbero portate in Francia, attraverso i Corridoi Umanitari, con un misto di curiosità e timore.

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