La stanza ha poche finestre, quella che porta al balcone sembra inesistente fino a quando si sceglie di aprirla, i muri sono incrostati per la troppa umidità e nell’aria aleggia un pesante odore di tensione e sigarette consumate.
Si presenta così la casa di Hassan, che poi potrebbe chiamarsi anche Anwar, Mohamad, Rami, Fatima.
La vita dei profughi siriani in Libano ha sempre un qualcosa di ripetuto, meccanico, prevedibile. Innumerevoli volte vieni fermato, innumerevoli volte riconosci nello sguardo quella richiesta impotente di soccorso.
“Non abbiamo nessun altro se non Dio e voi”.
Un paragone importante, spesso mi mette a disagio ma so quanta sincera disperazione ci sia dietro queste nove parole messe in fila.
Casa, garage, tende.

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Ci sono alcuni momenti in cui l'aria si fa pesante, qui.
In cui l'impatto con le mille sofferenze affatica, riduce le energie.
In questo pezzettino di mondo, in una delle regioni più povere di un Paese minuscolo e controverso, milioni di siriani conducono esistenze a dir poco precarie, con quasi nessuna certezza se non quella di essere in qualche modo sopravvissuti all'inferno e di dover lottare con le unghie e con i denti tutti i giorni, per tenersi stretta la dignità.
Persone che hanno difficoltà e bisogni dai più essenziali ai più rari, persone che con la loro esistenza ci ricordano che il loro dramma non può essere ignorato e che ancora vivono, amano e spesso provano paura.

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Oggi abbiamo incontrato un uomo che ha visto la morte, ed è tornato per raccontare.
Mohamad è stato arrestato a Baba Amr, il quartiere di Homs ribelle al regime dove abitava, sei anni fa, all’inizio di quella che in tanti hanno sperato fosse una rivoluzione, e che si è rapidamente trasformata in guerra civile e massacro.
Come tanti siriani è stato catturato a casa sua, durante una retata in cui i militari governativi andavano casa per casa ad arrestare i maschi di famiglia.
Essere sospettato di sedizione era molto facile, bastava abitare in un quartiere “idealmente” vicino alla ribellione e non avere santi in paradiso a cui aggrapparsi per ottenere protezione.

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La vita nonostante, questo immagino quando vedo ciò che ci circonda qui nel nord del Libano.
Sia gli aspetti che mi fanno fare più fatica, per il loro carico di dolore, sia ciò che mi spinge ad aprirmi e a vedere l’esistente con occhi nuovi.
Vedo la forza di Zahra, nel giorno in cui ha perso suo figlio in Siria a Raqqa, il momento in cui ha realizzato che niente sarebbe stato più come prima.
Osservo le sue mani rugose mentre stringono il telefono, con una foto di un ragazzo sorridente di 27 anni insieme a due bimbe piccole. Un ragazzo che, profugo in Libano, ha scelto di tornare nella guerra per amore di sua moglie.
Il nome di questo giovane eroe è Ibrahim, sarebbe da insegnare a scuola e comporvi poesie.
Ibrahim aveva più volte avuto la possibilità di salvarsi, ma l’ha anteposta alla vicinanza ai suoi cari, fino al giorno in cui durante una perlustrazione in ciò che era rimasto della sua casa originaria è saltato in aria su di una mina dell’Isis.
Ha perso le gambe ed è volato in cielo, lo hanno trovato senza vita tre giorni dopo.

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Oggi L. era fuori dalla nostra tenda.
Sorseggiava aranciata di prima mattina.
L'ho vista lì, seduta fuori dalla scuola e l'ho immortalata così, nella sua spontaneità.
Mi chiedo se lei possa provare, di tanto in tanto, in questi momenti, lo stesso dolore che provano i suoi genitori.
W. e S. ieri ci hanno comunicato che hanno intenzione di andare a Tripoli per prendere uno dei barconi che arrivano in Italia.
Vogliono la libertà.
Vogliono un futuro diverso per loro e per i loro figli.
La vita in Libano li sta consumando: i problemi con il proprietario del terreno dove si trova la loro tenda, il prezzo elevato dei medicinali, la scuola per i bambini gravemente insufficiente da ogni punto di vista, il tessuto sociale logorato dal razzismo e dalla paura.

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