In queste settimane al campo profughi di Tel Abbas ho visto partire e tornare a casa tanti volontari: “marsalam marsalam”, gridavano i bambini e le persone del campo. Baci, abbracci e tante lacrime, da entrambe le parti, accompagnavano gli ultimi istanti.
“A presto, tornate a trovarci e non dimenticatevi di noi” ci chiedevano tutti.
E come poterlo fare

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Qualcuno ha mai sentito il tonfo sordo di un colpo, sferrato sul corpo di un uomo inerme?
Assomiglia a qualcosa che sbatte forte contro una superficie, nell’immediato si percepisce anche un gemito flebile, l’aria che lotta per uscire dai polmoni contratti, la bocca che gorgheggia.
Il corpo percepisce una pausa, breve quanto basta per accendere una flebile speranza che la botta ricevuta fosse l’ultima, poi i secondi passano e ne giunge un’altra più forte, che scaglia a terra chi ha subito il trauma.
Come un’altalena, dove dolore e abusi si sovrappongono gli uni sugli altri.
L’unica assente è l’umanità.
Arriva la mano sollevata, affonda, ricarica con maggiore enfasi, e scarica nuovamente.

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“Dove è Marwan?”

La voce di Anas, libanese di una potente e temuta famiglia latifondista di Tel Abbas risuona nell’aria e spezza il fiato.
La notte è già scesa da circa un paio d’ore ma quello che sento avvicinarsi non ha a che fare con il ciclo naturale del sole e della luna, è qualcosa di più oscuro, più pericoloso.
Vediamo Anas muoversi come un ombra ai bordi del campo, probabilmente sotto effetto di qualche sostanza, urla, dimena le braccia, sale e scende le scale di un edificio in costruzione davanti ai nostri occhi allibiti.

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Ci sono limiti che ogni essere umano ha paura di superare, strade da non attraversare o angoli da evitare.
Rimad ha cinque anni compiuti da poco, fa parte di un regno distante dalla cruda quotidianità, il regno della fantasia dei bambini.
Lei ama giocare, correre, spettinarsi i capelli e ridere, ridere tanto fino a farsi mancare il fiato.
I suoi genitori vengono da Homs, in Siria, la sua città natale non esiste più, almeno dal punto di vista della quotidianità sociale.
Un cumulo di rovine si stende su quello che un tempo, sei anni fa, era un centro commerciale importante.
La guerra lei se l'è lasciata alle spalle, come un incubo avariato, nei minuti che precedono il risveglio prima dell’alba.

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Hammoudi ha quattro anni e due occhi grandi, leggermente scavati e scuri.
È arrivato in Libano alcune settimane fa insieme alla sua famiglia, direttamente dalla Siria per provare a salvarsi la vita, sfidando i bombardamenti e le violenze diffuse.
Ora vive in un alloggio povero, condiviso con altre tre famiglie nel quartiere di Abu Samra a Tripoli, una delle zone più marginalizzate e abbandonate della città.
Quando una dottoressa che conosciamo ci ha spiegato del suo arrivo dalla Siria, ci ha raccontato che l’hanno portato direttamente da lei, quasi senza passare da altri intermediari, tanto la sua condizione è difficile.
Hammoudi ha una malattia ematologica diagnosticata in ritardo, che lo porta ad avere la pancia gonfia e a perdere peso velocemente, troppo in fretta.

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