Ho appena ricevuto una notizia dai campi profughi in Libano: è morta l’ennesima siriana.
Una delle tante migliaia che sono morte che però per me ha un nome: Umm Suleiman.
Umm Suleiman, nonostante avesse problemi di cuore, andava a lavorare la terra per portare qualche soldo a casa visto che a causa di un missile in Siria il marito ha perso l'uso delle gambe e il figlio ha una scheggia in un occhio.

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Tra i ragazzi accompagnati al centro dei Diritti Umani di Beirut, oggi c'era A., ragazzo di trentasei anni proveniente da Talkalakh, un paesino al confine tra Libano e Siria.

Lui, traduttore di inglese, si siede di fianco a me sul service di ritorno ed inizia a raccontarmi la sua storia.
“Sono dovuto scappare dalla Siria e sono finito nel posto peggiore nel momento peggiore. Sono scappato dopo essere stato detenuto due volte; prima per cinque giorni e poi per trentasei”

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Fra le famiglie visitate in queste settimane quella di oggi è sicuramente la più povera. Si tratta infatti di tre cugini, con rispettive mogli e figli, concretamente sei, nove e sette, più un quarto nucleo familiare composto da madre e nove figli.
Vivono in mezzo ad un campo di fragole, che coltivano in cambio delle umili tende in cui vivono.

Anche loro, come tutte le persone incontrate, sono dovute scappare dalla guerra, investire una montagna di soldi per giungere fino in Libano per poter poi continuare a vivere di stenti.

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E’ qualcosa con cui tutti i volontari, prima o dopo, dovranno confrontarsi: il check-point.

La questione è che in queste due parole ci sono raccolte tante cose: preparazione, speranza, paura, ansia, gioia e adrenalina.
Un controllo che può essere fatto da polizia o militari, che può essere fisso o mobile, trovarsi in un luogo trafficato ma anche non. E’ qualcosa di imprevedibile, che può avere una grande conseguenza sulle persone che accompagniamo.

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Y. è un ragazzo siriano di 30 anni.
Ha tre figli bellissimi, due dei quali ci vengono incontro all'ingresso dell'ospedale insieme alla zia. Quindi entriamo e insieme cerchiamo di capire dove hanno ricoverato il padre.
É in un'ala particolare dell'ospedale: per poterlo visitare bisogna oltrepassare una porta blindata e avere il permesso della guardia che ti apre.
Spieghiamo che siamo un'organizzazione, lasciamo i nostri passaporti e siamo dentro.
La guardia ci accompagna nella camera di Y.: una cella.
Insieme a lui ci sono altre persone ricoverate, cinque, forse sei, ma attraverso la porta che abbiamo davanti, che è tutta bucherellata, si fa fatica a vedere.

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