Qui al campo una delle prime sensazioni e di non sentirsi mai l'ultimo arrivato.
Tutti accolgono il volontario come se avesse sempre fatto parte della loro famiglia.
E non importa se non ti conoscono bene o tu non parli bene la loro lingua.
Vogliono che si instauri subito un rapporto di fiducia, perchè tu possa essere attento ad ascoltare i loro vissuti, e ad entrare silenziosamente nella loro quotidianità.
“Si sono stato dalla polizia, volevano prendere le mie impronte digitali. Poi mi hanno picchiato, bendato e messo con la faccia contro il muro per 5 ore”.
Così ieri sera ci confida Abu Arun dopo averci offerto una buonissima cena.

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Ci sono momenti e attimi in cui il tempo si ferma e dentro una stanza, piena di bambini e sole donne, ci si dimentica delle sofferenze quotidiane.
Dopo una tazza di tè e un po' di semi di girasole, sorseggiando il caffè cominciano le confidenze e le chiacchiere tra donne.
Si tolgono i veli e si sciolgono i capelli.
Giovani donne con gli occhi luccicanti e sorrisi colmi di speranza raccontano i loro desideri più profondi, la volontà di studiare e dei sogni nel cassetto.
Si ascolta e seleziona la musica e si commentano le canzoni e i cantanti, ci si alza e si balla.
Scatta qualcosa e ci si muove a tempo di musica in una tenda in un campo profughi che ha smesso per qualche attimo di essere tale per diventare una sorta di luogo segreto di amiche che condividono sogni, speranze, movimenti sinuosi di danza e debke.

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La frase che più sentiamo dalle persone adulte del campo è “non lo facciamo per noi, ma per i nostri figli”.
Una frase semplice di primo impatto, ma che racchiude una profonda consapevolezza del dramma che la guerra in Siria sta causando e causerà non solo ai ‘grandi’ ma anche e soprattutto alle generazioni future.
La cosiddetta ‘generation lost’ tanto decantata da grandi organizzazioni internazionali e non governative.
Un mondo, di fatto, lontano da quello degli adulti che però man mano matura e cambia portando con sé un disagio, spesso inespresso, ma evidente di generazioni lasciate al proprio destino come una bussola impazzita.
Il mondo dei bambini è diverso da quello dei grandi.
Loro guardano, osservano e ancora ritrovano la meraviglia nelle piccole cose.

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Voci che incessantemente chiedono aiuto, sguardi tristi ti urlano addosso la speranza rimasta: la affidano a noi.
A volte scagliandocela addosso, con l'impeto di chi si agita fortemente nell'intento di restare a galla per sopravvivere.
Capita di sentirmi sommersa anche io dalla marea degli affanni quotidiani di queste persone, di percepire ogni richiesta come una responsabilità davanti alla quale siamo piccoli, quasi minuscoli, a differenza degli ostacoli e delle aspettative

Quando abbiamo conosciuto Hassan il suo mare era burrascoso, la vita di sua figlia appesa ad un filo.
Eppure ora lei è in Italia, si sta curando ed oggi mi sorrideva felice da un parco giochi, dall'altro lato dello schermo del telefono.

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Un sorriso brillante le illumina il volto mentre saltella in preda all'euforia da una parte all'altra della stanza, ora rincorrendo giocosamente una palla, ora fingendosi una maestra severa e noi alunni poco diligenti.
Come se questa stanza si trasformasse e potesse assumere qualsiasi forma nella sua fantasia da bambina.
Un corpicino esile, avvolto da un pigiama giallo acceso, cela in realtà un'energia e una vivacità inesauribili, che si mostrano in maniera particolare per l'emozione della nostra presenza.
Ad un tratto prende il mio quaderno, ci scherza, poi, con fare deciso, abbozza qualche disegno, un cuore, una ragazza, e il suo nome in arabo: “Liubaba Walid Al-Almadi”.
Liubaba è la più piccola della famiglia e della Siria non si ricorda un granché.

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