Tempo palestinese, tempo dilatato.
In realtà questa volta siamo stati nei tempi e alle sei e qualche minuto del pomeriggio siamo effettivamente nel furgone. Bisogna fare accompagnamento ai pastori della Jordan Valley, mi ripropongo di andare, due giorni fa ci sono passato ma non ho avuto modo di conoscere bene i pastori e la zona, però è cresciuta a dismisura la curiosità.
E’ difficile stare dietro ai programmi, ho deciso che ci rinuncio e mi faccio trascinare, per ora so soltanto che l’accompagnamento si farà la mattina successiva mentre dormiremo in giro.
In giro dove mi hai chiesto? Non saprei dirtelo, davvero, però mi sembra di aver colto che si dorma nella casa abbandonata che abbiamo visto l’altro giorno, quella di I.
Si lo so, neanche io ho capito bene chi sia I, dev’essere un contatto di H ma dopo ti spiego meglio.

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La temperatura è cocente, ma il luogo molto bello.
Siamo nelle valli di Al-Ouja con un pastore, il figlio e il gregge.
Il paesaggio è semi desertico, colline di terra arida, sassi, conchiglie e ciuffi di paglia dorati.
L’army fa irruzione in questa collina, perché il pastore, lì, non ci può stare.
Cinque soldati, i pastori, noi con le telecamere e due israeliani, ci spostiamo.
Filmo e osservo la scena con distacco.
Non provo rabbia o paura.
Ma seguo con lo sguardo il bambino, cercando di cogliere le sue emozioni.
Un ometto sei.
Serio, responsabile del gregge, mentre il papà discute con i soldati.
Ti guardi in giro, attento.

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Sono S., una volontaria jadid (nuova), anche se oramai non più così tanto - sono arrivata da quasi 6 settimane.
Sono stata "fortunata" perché in questo lasso di tempo l'occupazione si è palesata meno che in altri periodi.
Ho avuto i miei spiacevoli incontri con coloni, esercito e polizia, ma si può dire che nelle ultime settimane la situazione è stata relativamente tranquilla.
Shuai shuai, con le mie insicurezze e con il mio arabo estremamente risicato, entro a far parte di questa comunità.
Imparo i nomi delle donne, dei bambini, degli uomini.
Loro imparano il mio, e io mi godo gelosamente questi momenti.
Non so precisamente quando, ma inizio a sentirmi a casa.
Ad At-Tuwani con le terre e le colline che circondano questo villaggio, con quei nomi che il primo giorno mi sembravano così difficili da ricordare.

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Sono le tre del mattino di una calda giornata di Giugno quando atterro sul suolo israeliano.
E’ la seconda volta che mi trovo qui, con quelle speranze e paure che ora si sono fatte concrete, e non sono solo più un’idea.
Non è stato difficile decidere di tornare, decidere di vivere ancora una volta un piccolo pezzo della mia vita lì, in quella terra di ulivi ed ingiustizie.
Sarà tranquillo, mi dico, alla fine sono quattro mesi che sei a casa, andrà tutto bene.
Sono le tre del mattino quando un agente dell’immigrazione mi dice che no, qualcosa nella mia storia non torna, e che devo aspettare.
C’è qualcosa di strano in quel mio ritorno, ed aspetto, davanti alla porta di quell’ufficio che deciderà, ancora una volta, del mio futuro qui.
Ed è stato così che, nel giro di poche ore, ho ricordato cosa fosse l’occupazione.
“Sei già espulsa, credi che non sappiamo cosa tu abbia fatto in quei tre mesi?”.

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