Il sole è ormai calato da un po', le pance sono piene, nell'aria si sente un dolce profumo di narghilè e così inizia la notte.
Fuori picconi e pale, si lavora a mente più lucida a ritmo di una canzone che ripete "I won't give up".
"Yalla Kali scava anche tu!”.
Allora prendo il piccone e do una mano, la forza mi arriva da questi ragazzi che spostando terra e massi costruiscono il loro futuro e quello del loro villaggio.
È un momento magico, le stelle in cielo sono tantissime e si mischiano alle nostre risate.
Questo Ramadan porterà un nuovo pezzetto di resistenza, nuova forza a chi lotta per la propria terra.
Questa sera ho visto l’anima di Sarura, quell’anima che l’esercito e l’amministrazione israeliana hanno minacciato più volte, ma la vita che portano i ragazzi in queste grotte è più forte della paura dell’oppressione.
Sumud, questa parola sentita molte volte, che piano piano si è fatta un po' di spazio anche dentro di me e mi rende maledettamente difficile lasciare questa terra.
Tuwani ha un tramonto bellissimo a maggio.

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Hafez spezza una focaccia allo za’atar.
I suoi occhi brillano come quelli di un bambino. Il suo volto si rilassa, i segni del tempo fuggono. Ringiovanisce di vent’anni, per un momento.
"Vedi Mirta".
Hafez è in grado di dare potenza ad ogni parola. La pronuncia - con una voce che non si può descrivere: è la voce di H e basta - le dà vita, la soffia nel mondo donandole coraggio, forza, solidità. La accompagna, dalla sua gola alle orecchie del mondo, e in quel cammino ogni parola scopre se stessa.
"Vedi Mirta".
Eccomi, Hafez. Mi chiami per nome e io so che stai per dirmi qualcosa di importante.
Lo sento dal tono, così solenne e così limpido.
Lo vedo dai tuoi occhi: i tuoi brillano quando pregusti la focaccia, ma brillano di una luce più profonda, di una luce che viene da molto lontano quando parli di resistenza.

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Lo sai che c'è un'ombra che spaventa le persone che puoi incontrare quando sei solo...
Un'ombra?
Si un'ombra, come dire...
E che fa? Com'è?
Vuole spaventarti sai… ha la testa di un asino, il corpo di un leone e una coda da coniglio. Si chiama ‘Alak.
Davvero?
Sì, e quando ti parla lo fa con una voce familiare.
Di qualcuno che conosci?
Sì esatto. Sai l'ultimo giorno dell'anno, il 31 dicembre, stavo camminando su questa strada e l'ho incontrata. La puoi incontrare solo quando sei da solo, non con altre persone. E mi ha parlato con la voce di mio fratello prima da lì e poi dalla valle.
E che ti ha detto?

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“Hanno spezzato gli ulivi di H. in Khelly”.
Io e C. prendiamo le telecamere e ci avviamo.
Arriviamo sul posto, è appena dietro casa, e iniziamo a fare foto.
Cerchiamo di trovare il punto in cui è possibile far vedere lo scempio di questo gesto.
Facciamo tante foto, iniziamo a contare gli ulivi.
Uno, due, tre, quattro, … “Sono 18?” “Sì, 18 ulivi”.
Ci guardiamo, siamo arrabbiate e facciamo fatica a dire qualcosa ad H.
Osservo i ragazzi, gli stessi che avevano piantato gli alberi pochi giorni prima, li osservo mentre filmano e fanno foto.
Cosa si può provare dopo l’ennesima volta che ti distruggono ciò che tu pianti e costruisci con fatica?

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Ho conosciuto la vedova in un momento di dolore.
Le sue rughe profonde le solcavano il viso.
La fatica era su tutto il suo piccolo corpo.
Di fronte alle macerie della sua casa mi ha servito il tè, mentre teneva per mano un paio di bambini.
Aveva finito di costruirla da poco più di tre mesi, non so quanto ci sia voluto per farla, ma purtroppo so che sono bastate poche manciate di minuti per demolirla.
La cisterna dell'acqua era ribaltata.
I pannelli solari che le davano energia elettrica erano stati portati via.
Era rimasta la sua grotta e un metro quadro di cemento su cui far scivolare le lacrime, la polvere, la rabbia.
Una settimana dopo sono tornata nel suo villaggio.

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