Posso raccontarti la loro forza

12/03/2020
Come faccio a spiegarti cosa significhi essere zoppa
non avendo mai dovuto subire un’amputazione, non avendo mai avuto un grave incidente, o essendo nata con tutte e due le gambe funzionanti?
Come faccio a spiegarti cosa significhi essere cieca
non essendomi mai scontrata con i frammenti di una mina, non avendo mai avuto una malattia degenerativa, o essendo nata e vivendo con la possibilità di poter vedere le sfumature della natura?
Come faccio a spiegarti cosa significhi perdere un figlio
non essendomi mai scontrata con la morte prematura, non avendo mai avuto figli, o essendo stata fortunata da non perdere fratelli e sorelle giovani?
Carpe Diem – Febbraio 2020
Ancora qualche giorno da vivermi qui, prima di rientrare in Italia, in quell’Italia che ora, a seguito di uno “SmartVirus” (come lo definisco io), sta impazzendo e al tempo stesso soffrendo.
Ho parlato di “vivere”, quando avrei potuto usare altri verbi come “trascorrere”, “spendere”, “rimanere”, perché qui, nelle colline a sud di Hebron e, in particolare, ad At-Tuwani si vive.
Non importa del tempo che passa, soprattutto in questa stagione in cui le giornate iniziano ad allungarsi e il tempo scorre più lentamente.
Si vive ogni secondo in maniera piena, viva, autentica, senza sprecarlo.
Si gusta la bellezza delle piccole cose, si abbraccia il dono dello stare insieme, si apprezza il valore della famiglia, degli amici, del prossimo.
Quasi, direi, si sta in pace, in spensieratezza, in libertà, in serenità.
Tutto è finito, si può riprendere fiato

Una chiamata e via alla corsa.
Tu corri e continua a farlo finché una voce non ti dice: “basta, siamo arrivati”.
È iniziata così la mia giornata, nel villaggio di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron.
Fuori fa tanto caldo, c’è un sole che spacca le pietre, quando all’improvviso squilla il teamphone ed io e A. siamo tenuti a correre verso Ar-Rakeez, un altro villaggio distante dal nostro circa venti minuti a piedi, per la presenza dell’esercito israeliano.
In realtà, faccio un po’ di fatica ad arrivare, centrando piede dopo piede il pezzo di terra giusto per non cadere ma, soprattutto, avvertendo per tutto il tempo un dolore al fianco lancinante.
Eppure, non demordo e corro, devo correre: vedo A. più avanti di me, io continuo ad avere difficoltà ma gli urlo: “tu corri, io ti sto dietro ma arrivo”.
E così è stato.
Il velo dei ricordi

E niente. Dopo un anno dalla mia partenza è come se il cuore battesse a un ritmo diverso.
Come se questo instancabile velo di nostalgia non avesse alcuna intenzione di spostarsi.
Sono tornata, vado avanti con la mia vita, raggiungo traguardi, faccio progetti, inizio cose, eppure niente.
Il velo resta lì.
Che legga tutti i giorni notizie sulla Palestina o che non le guardi per settimane, il velo è lì.
Che pensi ad ogni momento che ho vissuto o che non ci pensi, il velo è lì.
A volte basta pochissimo perché quel velo mi solletichi l'anima, può essere un pastore, può essere una pecora, può essere un sasso che assomiglia a una pecora sopra una collina.
Può essere il pane che non è mai tabun, può essere il timo che non è zathar, può essere il tè che non è dolce.