È ormai da un paio di settimane che sono qui. Siamo in primavera ma la giornata sa di estate piena.
Ho davanti un giovane fresco di arruolamento nell'esercito israeliano, arrivato poco fa insieme ai suoi colleghi. Come al solito, alcuni coloni israeliani hanno aggredito dei pastori palestinesi e i loro greggi, e lui ora è qui, chiamato a risolvere la questione... in favore degli aggressori.
Guardo il soldato negli occhi e mi sorge spontanea una semplice domanda, molto in uso tra le genti della mia città. C'è, infatti, in tutta questa lunga e complicata storia, un tassello che mi manca, ed è la sola cosa che vorrei chiedergli: ma come te va. Ma-come-te-va.
Penso che se solo potessi fargliela, questa domanda, e se lui potesse capirmi, ne uscirebbe totalmente demolito. Ci penserebbe un po' su e poi, abbassando le spalle, sconfitto, poserebbe a terra il fucile, si slaccerebbe il caschetto, e se ne tornerebbe a casa per cominciare una nuova vita. O forse no.
Eppure io vorrei tanto saperlo. Ma come te va.

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Questa volta la cosa che mi fa più paura è il vuoto del ritorno.
Mantenere il senso di follia - “questo non è normale!”.
Invece, nel vuoto delle parole di chi non ha mai visto, so che si perde l’assurdo.
Si perde la tensione della violenza, della paura e della quiete.
Perché le parole sono dette da un’altra parte, dove lo squillo del telefono non ti fa salire il cuore in gola, dove non c’è la dolcezza del tè bevuto in un silenzio che, da altre parti, mette a disagio.
So che questa è la tensione che vive ogni volontaria - cosa ne faccio della mia (non)appartenenza? - straniera qui e straniera a casa.
Almeno per quanto riguarda la Palestina.
Alcuni arrivano: “dov’è la lotta? Cosa posso fare? Come posso essere utile?”.
Lo capisco.
Però...
Io mi godo i momenti di quiete, dove non succede niente e ti senti “inutile”.
Mi godo ogni piatto lavato per A., ogni momento passato insieme…“fi gaua?” “Faddal!”
Perché, purtroppo….
Pausa.
La temporalità dell’occupazione non segue gli scatti di un film d’azione.

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Traduzione dell'articolo originale pubblicato su Mondoweiss: Israeli settlers attacked my father on our land. The settlers are free, while my father sits in prison 
di Mohammad Huraini

Ogni giorno affrontiamo ingiustizie e ci confrontiamo con un regime apartheid non solo da parte dei coloni, dei soldati o della polizia, ma dell'intero sistema che usa la violenza per ferirci, rubare la nostra terra e imprigionarci. Abbiamo bisogno del vostro sostegno ora più che mai.
Il 12 settembre alle 16:00, mio padre è uscito da casa nostra, ad At-Tuwani, per far pascolare le sue pecore sulla nostra terra, accanto alla quale i coloni israeliani hanno costruito l'insediamento illegale di Ma'on e l'avamposto di Havat Ma'on. Prima di uscire con il gregge, mi ha chiesto di portare una bottiglia d'acqua e un po' di caffè e seguirlo al lavoro, per aiutarlo nel prendersi cura della terra e piantare nuovi alberi. 

L’ho raggiunto 15 minuti dopo, insieme a dell'acqua e del caffè e un mio amico attivista internazionale. Una volta raggiunto ci siamo seduti a bere acqua e caffè, e poi ci siamo messi al lavoro rimuovendo pietre dalla terra, e portando vecchi pneumatici per costruire un muro intorno al nostro giardino per proteggere le piante da eventuali animali o coloni che avrebbero potuto entrare e danneggiarli.

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Lunedì 12 settembre, intorno alle 5 di pomeriggio, coloni dell’avamposto illegale israeliano di Havat Ma’on hanno attaccato l’attivista Hafez Huraini mentre stava lavorando la sua terra, nel villaggio di At-Tuwani, Masafer Yatta. Cinque coloni armati lo hanno picchiato provocandogli una frattura ad entrambe le braccia, poi, sotto la protezione dell’esercito che nel frattempo aveva raggiunto la scena, hanno impedito ai soccorsi di trasportarlo in ospedale: soldati e coloni si sono posizionati davanti alle porte posteriori dell’ambulanza impedendo che fosse caricato sul mezzo di soccorso, e in seguito i coloni hanno squarciato le ruote dell’ambulanza. I soldati hanno detenuto Hafez dichiarando la volontà di volerlo arrestare sotto l’accusa di aver picchiato un colono, e si sono rifiutati di rilasciarlo per far sì che ricevesse le cure mediche di cui aveva bisogno. Solo in un secondo momento Hafez è stato trasportato dall’esercito all’ospedale di Beersheba, sud di Israele, dove è rimasto sotto custodia militare e impeditogli ogni tipo di contatto esterno, perfino con il suo avvocato. Hafez è stato poi trasferito alla base militare di Kiryat Arba dove è stato interrogato e poi alla prigione militare di Ofer.
Oggi, giovedì 14 settembre nel tribunale militare di Ofer si è tenuta la prima udienza che si è conclusa con l’estensione della detenzione di Hafez per altri cinque giorni per proseguire le
indagini. La prossima udienza è stata fissata per lunedì 19 settembre.
Hafez è stato arrestato insieme ad altri due palestinesi del villaggio di At-Tuwani, e poco dopo l’arresto le forze armate israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio lanciando bombe sonore e lacrimogeni, rastrellando le abitazioni e arrestando 20 palestinesi, rilasciati alcune ore dopo.

Operazione Colomba chiede l’immediata liberazione dell’attivista per i diritti umani Hafez Huraini. Esprime poi la massima solidarietà e vicinanza ad Hafez, alla sua famiglia e alla resistenza popolare nonviolenta di tutti i palestinesi, donne, uomini e bambine/i del villaggio di At-Tuwani e di tutto il Masafer Yatta.

Oggi ho sentito caricare un mitra davanti a me per la prima volta.
Un rumore secco e assordante, così riconoscibile per un qualche motivo che non sai spiegare, anche se è la prima volta che lo senti.

Oggi ho visto un soldato caricare un mitra davanti a me per la prima volta.
In quel momento ho realizzato che avrebbero potuto sparare. Sparare a degli abitanti di un villaggio che disarmati erano nelle loro terre a passare un soleggiato e ventoso sabato pomeriggio di metà agosto.

Oggi ho sentito caricare un mitra davanti a me per la prima volta.
Ho rivisto il video che stavo girando in quel momento e il suono non è lo stesso, le immagini non sono le stesse, le emozioni non sono le stesse. Chi ha girato quel video? Non mi riconosco, non riconosco la scena, la sento distante. Forse siamo così abituati a vedere certe immagini che un mitra caricato e pronto a sparare non sembra nulla di che da uno schermo. Quando però lo vedi succedere davanti a te è diverso, fa paura.

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