Da qualche giorno al campo sono finiti i festeggiamenti per l’Aid Kabir, una festa che per i musulmani è molto importante. Le famiglie del campo, sopratutto i bimbi e le bimbe, l’hanno aspettata con ansia, parlando di vestiti nuovi da prendere per l’occasione, dei dolcini che avrebbero mangiato, delle grandi cene insieme.
La sera prima eravamo fuori con la chitarra a cantare “Bukra fii l’Aìd”, domani c’è la festa.
Poi la mattina del primo giorno di Aìd ci siamo svegliati con il chiasso, tutti erano nel cortile del campo, contenti del vestito nuovo, o perlomeno chi ha potuto permetterselo, e delle caramelle. Erano tutti così sereni, così allegri. L’aria di festa per tre giorni ci ha dato la sensazione che un poco di normalità potesse esserci pure qui, in un campo di tende in cui ogni due giorni manca l’acqua e i bambini giocano lanciando pietre, e che almeno il diritto a festeggiare fosse concesso.

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Non so perché, ma da qualche giorno il campo è invaso da farfalle.
Può essere la primavera inoltrata e l'innalzamento delle temperature. Oppure più semplicemente uno scatolone di aiuti umanitari contenente vestiti da farfalla.
Potrebbe essere che il venditore di cianfrusaglie cinesi di turno abbia trovato uno stock di rimanenze dallo scorso carnevale.
In realtà è l'Aid, la festa della conclusione del mese di Ramadan e ognuno è vestito a festa!
È bello vedere colori sgargianti e saltellanti nella drammaticità di un campo profughi.
E queste bambine farfalle sono anche esse parte dell'intreccio di volti e contraddizioni che affollano questa terra.
Ad uno guardo superficiale la contraddizione è palese: come può essere che un profugo che non mangia decida di spendere soldi per un vestito da farfalla piuttosto che per un pezzo di pane e due patate?

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Per i profughi siriani sono passati 8 anni dall'esodo.
In 8 anni nuove vite sono nate, bambini sono cresciuti, sono morti in molti senza la consolazione di farlo sopra la propria terra.
In 8 anni si ha il tempo di legarsi di nuovo.
Sì, si ha il tempo per rialzarsi da un abisso e di dimenticare un Paese morto, fantasma di se stesso.
Eppure in alcuni momenti i ricordi tornano fortissimi.
Come la nostalgia della parte di sé più bella, più ricca, più familiare.
Il paradiso, se il paradiso fosse una proiezione della mente.

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Succede qualcosa di strano in questo posto
in questo piccolo angolo di terra così vicino alla Siria,
per molti luogo del ricordo e della paura.

Succede che riscopri l’umanità che rende fratelli
la parte più vera del tuo essere al mondo
la bellezza del riconoscersi fragili
l’importanza di un’autentica condivisione.

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Seduta su una pietra, fuori dalla nostra tenda, guardo in silenzio i bambini che giocano.
Alcuni fanno a gara a chi è più veloce, usando due tricicli impolverati; altri, i più tranquilli, disegnano con le dita sulla terra; due o tre bambine saltano la corda mentre cantano una filastrocca un po' in arabo e un po' in francese.
Mi avvicino.
Sono stati giorni impegnativi e passare del tempo con i più piccoli mi aiuta a ritrovare le energie e a sorridere.
A. mi vede, mi fa una linguaccia, corre verso di me e mi dice "tayyara!", "aereo", vuole che lo prenda sulle spalle, come ormai è diventata un'abitudine.
Non appena iniziamo a correre per il campo, facendo finta di volare, urla una sola parola: Siria.

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