Succede qualcosa di strano in questo posto
in questo piccolo angolo di terra così vicino alla Siria,
per molti luogo del ricordo e della paura.

Succede che riscopri l’umanità che rende fratelli
la parte più vera del tuo essere al mondo
la bellezza del riconoscersi fragili
l’importanza di un’autentica condivisione.

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Seduta su una pietra, fuori dalla nostra tenda, guardo in silenzio i bambini che giocano.
Alcuni fanno a gara a chi è più veloce, usando due tricicli impolverati; altri, i più tranquilli, disegnano con le dita sulla terra; due o tre bambine saltano la corda mentre cantano una filastrocca un po' in arabo e un po' in francese.
Mi avvicino.
Sono stati giorni impegnativi e passare del tempo con i più piccoli mi aiuta a ritrovare le energie e a sorridere.
A. mi vede, mi fa una linguaccia, corre verso di me e mi dice "tayyara!", "aereo", vuole che lo prenda sulle spalle, come ormai è diventata un'abitudine.
Non appena iniziamo a correre per il campo, facendo finta di volare, urla una sola parola: Siria.

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Mastica e sputa, da una parte il miele
Mastica e sputa, dall’altra la cera.

Sono stati giorni intensi, di preparativi, di veglie fatte in 20 tutti in una sola stanza a ridere, fare imitazioni, ad ascoltare i desideri di Harun, a come si immagina la sua vita a partire da quel giorno in cui sarebbe finalmente salito sull’aereo.
Per gioco insegniamo ai bambini la filastrocca dei ‘33 Trentini’, Harun è bravissimo e pronuncia le parole perfettamente.
Gli ultimissimi giorni sono speciali, perché questa famiglia a cui siamo molto affezionati ha la possibilità di accogliere alcune persone nel povero posto in cui vivono, proprio quelle persone che come un ponte accompagneranno tutta la famiglia nei primi mesi di adattamento e integrazione a Trento.
Questo incontro compiuto in punta di piedi è commovente, così come lo è la possibilità data a questi sei bambini di costruirsi una nuova vita con i propri genitori, avere la possibilità di studiare e di sviluppare al meglio le proprie curiosità e capacità.

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Senza che io me ne accorgessi, queste montagne sono diventate un paesaggio familiare.
A casa mia non c’è niente di simile, nessun minimo accenno di collina o altura.
Era un paesaggio nuovo, appena arrivata qui.
Finché non ho realizzato che adesso le cerco con lo sguardo, ogni volta che esco dalla tenda.
Dall’altra parte delle montagne c’è la Siria: così vicina e così estesa.
Siria.
La inizi a conoscere dai racconti delle persone, di cui è sempre la protagonista, da quelli drammatici a quelli dolci e nostalgici, fino ai più leggeri e alle barzellette.
Poi inizi ad averne più chiara la geografia, i nomi dei quartieri, dei villaggi.
Li associ alle facce delle persone con cui vivi, fino ad arrivare a riconoscere gli accenti, i modi di dire tipici di ogni zona.
Protagonista indiscussa ed allo stesso tempo irraggiungibile, diventa quasi un luogo irreale, che esiste solo nei cuori e nelle menti dei profughi.

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Io, Paola, Inès e Valerio siamo andati a Bebnine ad incontrare una famiglia alla quale da qualche giorno è morto un bimbo.
Questa era una delle famiglie che un amico siriano, la settimana prima, ci aveva chiesto di incontrare, per capire se avevano bisogno di qualcosa o anche solo per conoscerle.
L’avevamo scritta nella lista delle visite da fare, con il pensiero che con il tempo le avremmo fatte tutte ritagliando dello spazio tra le mille cose da fare e la frenesia di certe giornate al campo.
Entriamo in casa, il clima è pesante.
La mamma si asciuga gli occhi continuamente, è molto bella, ha le lentiggini e il viso giovane.
Il padre è inginocchiato sul pavimento e guarda fisso per terra.
Il bimbo aveva sette mesi ed è morto all’ospedale di Tripoli.
La mamma ci racconta che da giorni aveva vomito e diarrea, loro non avevano i soldi per fare nulla.

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