Dal 17 di ottobre le strade del Libano si sono infuocate: di rabbia, di gente, di suoni e di colori.
L’enorme e devastante incendio che si era diffuso pochi giorni prima in tutto il Paese ed il modo malsano con cui era stato gestito, aveva caricato la gente di tensione e di frustrazione, sentimenti che evidentemente covavano da tempo.
Le condizioni generali del Paese infatti sono critiche praticamente dalla fine della guerra civile, tanto da far sembrare normale, anche a noi che viviamo qui, che la corrente pubblica manchi per metà della giornata, che l’acqua non sia potabile, che tutto sia così tremendamente inquinato e che per qualsiasi cosa ci sia bisogno dell’intraducibile “wasta”, che possiamo definire in italiano come “raccomandazione”.
La classe politica fino a questo periodo ha sempre e solo dato una risposta: la colpa di tutto è dei siriani.
I profughi sono stati accusati addirittura dell’incendio sopracitato.

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Ovviamente tutti sapevano da tempo che il Governo era corrotto.
Sapevano tutti che le persone approfittavano della loro posizione per avere vantaggi (denaro e potere) per il proprio gruppo e non per tutto il Paese.
Tutti sapevano quanto la vita in questo Paese fosse brutta, senza futuro, lavoro, bellezza, solidarietà.
Lo si capiva anche guardando le case, le città, le strade, questo posto non è amato né curato, perché non appartiene a nessuno, in compenso è sfruttato a impoverito, violentato e umiliato, come si farebbe con qualcosa senza anima, di cui non ci importa niente.
Ma ci si abitua a tutto, anche a vivere in mezzo alla bruttezza, alla violenza, ci si abitua anche a ottenere lavoro, accesso alla sanità, documenti, a qualsiasi cosa, attraverso favori, conoscenze e corruzione.

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Badia, madre di tanti figli, siriana di Homs qualche anno fa, tra le tende di Tel Abbas, a pochi passi dalla Siria in guerra, ci raccontava la primavera araba così: "tu non sai cosa significa essere in una piazza piena di gente che grida libertà.…".
Stasera, dalla piazza di Tripoli di Al Nour, lo capiamo, 50 mila persone che urlano: "il popolo vuole la caduta del regime!”.

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Sono tornata dal Libano due settimane fa.
Il giorno del viaggio verso l’Italia ho salutato Tel Abbas velocemente, tra la fretta della partenza e il silenzio delle mattinate del Ramadan, con nessuno in giro e l’aria ferma.
L’ho salutato con la stanchezza dei tre mesi e la nostalgia della quotidianità che stavo lasciando e che sapevo mi sarebbe mancata.
Ho bevuto una tisana con Umm Khoder, la yansun, la mia preferita, e nel momento in cui ero seduta tra lei, suo marito e i bimbi, ho sentito forte la relazione che nei tre mesi è nata, nonostante il mio arabo e l’imbarazzo.
Sono in Italia da due settimane e mi sembra di non sapere nulla.
In due settimane ho incontrato amici, famiglia, vicini vari, e da un lato è stato tenero tornare.

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Quando inizi a sentire che una tenda di cartone è diventata la tua casa, quando degli sconosciuti diventano la tua famiglia, si può davvero dire di essere lontani?
Davanti al tuo sguardo così intenso che, senza bisogno di parole, mi supplica di starti vicino per un po', come posso anche solo pensare di rimanere indifferente?

I tuoi bambini dormono tranquilli, stretti tra loro, su un materasso in un angolo della tenda e tu li guardi, con un sorriso appena accennato e gli occhi velati di qualcosa di simile alla malinconia ma che io non riesco a cogliere fino in fondo.
Quando stai in silenzio a cosa pensi?

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