Badia, madre di tanti figli, siriana di Homs qualche anno fa, tra le tende di Tel Abbas, a pochi passi dalla Siria in guerra, ci raccontava la primavera araba così: "tu non sai cosa significa essere in una piazza piena di gente che grida libertà.…".
Stasera, dalla piazza di Tripoli di Al Nour, lo capiamo, 50 mila persone che urlano: "il popolo vuole la caduta del regime!”.

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Sono tornata dal Libano due settimane fa.
Il giorno del viaggio verso l’Italia ho salutato Tel Abbas velocemente, tra la fretta della partenza e il silenzio delle mattinate del Ramadan, con nessuno in giro e l’aria ferma.
L’ho salutato con la stanchezza dei tre mesi e la nostalgia della quotidianità che stavo lasciando e che sapevo mi sarebbe mancata.
Ho bevuto una tisana con Umm Khoder, la yansun, la mia preferita, e nel momento in cui ero seduta tra lei, suo marito e i bimbi, ho sentito forte la relazione che nei tre mesi è nata, nonostante il mio arabo e l’imbarazzo.
Sono in Italia da due settimane e mi sembra di non sapere nulla.
In due settimane ho incontrato amici, famiglia, vicini vari, e da un lato è stato tenero tornare.

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Quando inizi a sentire che una tenda di cartone è diventata la tua casa, quando degli sconosciuti diventano la tua famiglia, si può davvero dire di essere lontani?
Davanti al tuo sguardo così intenso che, senza bisogno di parole, mi supplica di starti vicino per un po', come posso anche solo pensare di rimanere indifferente?

I tuoi bambini dormono tranquilli, stretti tra loro, su un materasso in un angolo della tenda e tu li guardi, con un sorriso appena accennato e gli occhi velati di qualcosa di simile alla malinconia ma che io non riesco a cogliere fino in fondo.
Quando stai in silenzio a cosa pensi?

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Sono sul letto, ovvero quel materasso di gommapiuma che da quasi un anno è diventato il mio letto, lo stesso tipo su cui le famiglie di qui dormono da 7 anni.
Sono sul letto, dicevo, mi sveglio con la testa frastornata, penso che nella notte ci sono stati molti rumori, credo come al solito. Mi alzo, pronta ad andare nell’altra tenda per iniziare la giornata con la colazione.
Apro la porta della nostra camera e davanti a me trovo uno scenario completamente diverso dalla sera prima: la nostra tenda non c’è più, è stata rasa al suolo da qualche bulldozer e così molte altre del campo, ne sono rimaste pochissime, forse due o tre, nel mezzo della terra piatta e brulla.
Un senso di insicurezza e angoscia mi assale: il mio passaporto, il computer del gruppo, le nostre cose, i nostri libri, hanno demolito e fatto sparire tutto! E la gente? I nostri vicini di tenda, gli altri abitanti del campo? Dove sono andati a rifugiarsi ora che anche la tenda in cui vivevano non c’è più?
Con queste domande in testa apro gli occhi. Per un attimo spero sia stato un incubo, il secondo dopo mi accorgo che è proprio così, ho fatto solo un brutto sogno.

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Penso alla mia ultima notte al campo.
Me ne sto sdraiato nell’oscurità della tenda a fissarne il soffitto, sperando che la stanchezza della giornata vinca la mia insonnia.
Il silenzio che mi circonda è rotto da qualche rumore indistinto tutt’intorno e dall’abbaiare dei cani in lontananza.
Vorrei dormire ma non ci riesco.
Quando chiudo gli occhi un lungo corteo di immagini si accalca nella mia testa riconsegnandomi frammenti di quella che è stata la mia esperienza in questo luogo.
Mi vedo aspettare al caffè della stazione dei Connexion in attesa che qualcuno del team mi venisse a prendere, poi seduto nell’angolo di una tenda durante la mia prima visita a una delle tante famiglie siriane che vivono nella zona.

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