Abbiamo visto un uomo chinarsi su se stesso, arrotolato sul suo stesso dolore, su ciò che si è dovuto portare via insieme al suo corpo e al suo spirito dalla Siria e dai 7 anni in carcere che per il solo culto di dea Violenza e dio Potere ha dovuto scontare.
È qui in Libano da appena una settimana, fuori da una cella “di sicurezza” da circa 20 giorni.
La suocera dice che un essere umano così dolce lei non l’ha mai conosciuto, lui le dà un bacio sulla testa, nascondendo poi subito lo sguardo.
All’inizio parla a malapena, ma risponde ai nostri sorrisi con un bel sorriso, nonostante noi siamo degli sconosciuti e che gli manchi pure qualche dente.

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Piove sul bagnato si direbbe, anche se qui l’acqua sarebbe stata provvidenziale.
Tel Abbas, dove come Operazione Colomba viviamo, ieri sera (16 gennaio) verso le 21 è stato teatro dell’ennesimo accanimento del destino nei confronti dei siriani.
Un terribile incendio, causato da un cortocircuito all’interno di una tenda del campo profughi accanto al nostro, è divampato velocemente anche a causa del forte vento che spirava verso ovest, arrivando a lambire le tende del nostro campo, a circa dieci metri dalla nostra tenda.
La direzione del vento ha – magra consolazione – evitato che l’incendio si propagasse verso la parte più consistente del campo.
I pompieri arrivati dopo circa 40 minuti, sono riusciti a domare le fiamme e a consegnarci la triste visione di quello che è rimasto… il nulla.

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Ricordati sempre che lo sconforto viene ad ondate.
Quando qui c’è la calca, la fila di gente che viene a dirci che non sa cosa mangiare, non sa come nutrire i propri figli, non sa come comprare le medicine per curarli, non sa che farsene di un futuro in questo Paese…
Sono ondate, maree di schiaffi in faccia, partite di pugilato che finiscono con me al tappeto, sdraiata, non faccio in tempo a fare un movimento che ecco un altro gancio e rivedo il vuoto.
Il vuoto.
Parola che mi ritorna spesso in questi giorni in testa.
La vacuità.
Quest’idea può richiamare in noi le sue diverse sfaccettature, Chandra le ha anche dedicato un capitolo nel suo “Il silenzio è cosa viva”.
C’è il vuoto che dà le vertigini, c’è il vuoto dato dall’annullamento di sé, c’è il vuoto di prospettiva di queste persone quando mi guardano e con le parole ci chiedono molto, molto, molto di più di ciò che è nelle nostre possibilità immediate.

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Tripoli - 19/12/2019
Nel clima politico incerto e precario in cui verte il Libano e nelle forti manifestazioni di piazza, in cui i suoi abitanti rivendicano condizioni di vita migliori e degne, c’è una componente fondamentale del Paese che, in questo momento, rischia di passare in secondo piano: i profughi siriani.
Stretti tra la morsa della paura delle deportazioni e della quasi totale mancanza di ogni Diritto fondamentale in Libano, dei bombardamenti e della assenza di sicurezza in Siria, anche loro hanno deciso di scendere in strada.
Alle 10 del mattino di giovedì 19 dicembre per la prima volta a Tripoli, circa 50 persone si sono ritrovate davanti agli uffici dell’UNHCR.
Si erano organizzati attraverso un gruppo facebook che si chiama “Fateci uscire dal Libano”, dando vita ad un sit-in e superando la paura, per poter esprimere il loro dolore.
In mano avevano cartelli e foto raffiguranti capi dei governi europei, nel cuore il sogno di essere ascoltati, di incanalare la loro rabbia verso persone o Istituzioni che potessero interessarsi alla loro condizione.

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Rabia è un bambino siriano, dai capelli neri, vive la sua paralisi dovuta a una meningite, in una piccola tenda, nel campo profughi più marginalizzato del Libano.
La sua famiglia viene da Baba Amr, uno dei quartieri di Homs maggiormente devastati dalla guerra e dall’assedio.

Vorrei che il mondo sapesse cosa si impara da Rabia, il cui nome, in arabo, significa Primavera.

Con i suoi occhi ti racconta il desiderio di vivere, e di comprendere.
Attraverso il suo corpo piccolo e fragile urla l’importanza di lottare, e di non lasciare cadere le occasioni al lato del sentiero, perché ciò che trascuri non tornerà.

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