Mastica e sputa, da una parte il miele
Mastica e sputa, dall’altra la cera.

Sono stati giorni intensi, di preparativi, di veglie fatte in 20 tutti in una sola stanza a ridere, fare imitazioni, ad ascoltare i desideri di Harun, a come si immagina la sua vita a partire da quel giorno in cui sarebbe finalmente salito sull’aereo.
Per gioco insegniamo ai bambini la filastrocca dei ‘33 Trentini’, Harun è bravissimo e pronuncia le parole perfettamente.
Gli ultimissimi giorni sono speciali, perché questa famiglia a cui siamo molto affezionati ha la possibilità di accogliere alcune persone nel povero posto in cui vivono, proprio quelle persone che come un ponte accompagneranno tutta la famiglia nei primi mesi di adattamento e integrazione a Trento.
Questo incontro compiuto in punta di piedi è commovente, così come lo è la possibilità data a questi sei bambini di costruirsi una nuova vita con i propri genitori, avere la possibilità di studiare e di sviluppare al meglio le proprie curiosità e capacità.

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Senza che io me ne accorgessi, queste montagne sono diventate un paesaggio familiare.
A casa mia non c’è niente di simile, nessun minimo accenno di collina o altura.
Era un paesaggio nuovo, appena arrivata qui.
Finché non ho realizzato che adesso le cerco con lo sguardo, ogni volta che esco dalla tenda.
Dall’altra parte delle montagne c’è la Siria: così vicina e così estesa.
Siria.
La inizi a conoscere dai racconti delle persone, di cui è sempre la protagonista, da quelli drammatici a quelli dolci e nostalgici, fino ai più leggeri e alle barzellette.
Poi inizi ad averne più chiara la geografia, i nomi dei quartieri, dei villaggi.
Li associ alle facce delle persone con cui vivi, fino ad arrivare a riconoscere gli accenti, i modi di dire tipici di ogni zona.
Protagonista indiscussa ed allo stesso tempo irraggiungibile, diventa quasi un luogo irreale, che esiste solo nei cuori e nelle menti dei profughi.

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Io, Paola, Inès e Valerio siamo andati a Bebnine ad incontrare una famiglia alla quale da qualche giorno è morto un bimbo.
Questa era una delle famiglie che un amico siriano, la settimana prima, ci aveva chiesto di incontrare, per capire se avevano bisogno di qualcosa o anche solo per conoscerle.
L’avevamo scritta nella lista delle visite da fare, con il pensiero che con il tempo le avremmo fatte tutte ritagliando dello spazio tra le mille cose da fare e la frenesia di certe giornate al campo.
Entriamo in casa, il clima è pesante.
La mamma si asciuga gli occhi continuamente, è molto bella, ha le lentiggini e il viso giovane.
Il padre è inginocchiato sul pavimento e guarda fisso per terra.
Il bimbo aveva sette mesi ed è morto all’ospedale di Tripoli.
La mamma ci racconta che da giorni aveva vomito e diarrea, loro non avevano i soldi per fare nulla.

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Stamattina mi sono alzata con il chiasso dei bambini che giocavano accanto alla tenda.
Esco fuori e inizio a giocare un po’ con Rayan, ad un certo punto Ire si affaccia dalla porta e mi chiede di entrare un attimo in tenda.
Ancora confusa dalla sveglia incasinata entro, c’è una coppia in ginocchio davanti al tavolino, Ire mi dice che non ha capito bene cosa stiano dicendo, parlano di un ospedale e un bambino, ma sia io che lei l’arabo lo mastichiamo poco.
Dico alla coppia che non sappiamo bene la lingua, la mamma ha gli occhi rossi.
Con l’aiuto di un amico arabo iniziamo a parlare con loro: il figlio, di 42 giorni, è morto ieri all’ospedale governativo di Halba, la mamma parla di problemi alla testa, troppo ossigeno.

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Rabbia, voglia di tirare un pugno a un muro.
E soprattutto chissà cosa pensa U. davanti a quella sagoma scura a puntini da cui esce la voce del marito. Dopo tutto quello che hanno passato poi...
Entrambi i genitori sono originari di Manbij, città nel nord della Siria, ma si sono conosciuti e sposati a Damasco dove lui lavorava come decoratore.
Ci fa vedere delle foto: sembrano antiche opere archeologiche per quanto son belle.
Scoppiata la guerra sono tornati dai parenti nel nord, pensando fosse più sicuro che nella capitale.
Si sbagliavano, non esiste un posto sicuro in Siria.
Nel 2016 la città è conquistata dall'Isis. U. ci racconta che anche la loro figlia, che ora ha 6 anni, era costretta a mettere il velo integrale e i guanti neri.
Scappano di nuovo.
Il marito li aspetta già in Libano dove ha trovato un lavoro a Jounieh, quartiere di Beirut.
Dal 2015 il Libano ha chiuso i confini quindi U. passa dalle montagne.

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